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Un’occasione per voltare pagina. L’Italia di oggi nella fotografia di Massimiliano Valerii

L’attuale emergenza sanitaria ha reso lo scenario mondiale molto confuso. La sensazione è quella di navigare a vista in un orizzonte nebbioso, cercando di evitare iceberg e scogli. Una prospettiva paralizzante, anche alla luce della recente nuova impennata dei contagi in Europa, dopo la breve tregua estiva. Guardando all’Italia, la sensazione è che la pandemia di Covid-19 non abbia fatto che accelerare dinamiche già in atto in un Paese dominato da un senso di insicurezza che sembra arrivare da molto lontano. Un’Italia penalizzata da troppe zavorre che non riesce più a “volare”. Insomma, per usare una metafora, il virus ha colpito un corpo con uno stato di salute già fortemente compromesso.

Massimiliano Valerii

Di questo è convinto il Direttore Generale del Censis, Massimiliano Valerii: «Al di là della retorica di coloro che dicono che non saremo più come prima e che la pandemia rappresenta un point break, sono sempre più convinto che quello che sta succedendo squarci il velo su alcune nostre fragilità e debolezze che erano preesistenti», spiega. «Prendiamo il dato su cui c’è più preoccupazione, ovvero l’impennata della disoccupazione come conseguenza della caduta verticale del Pil e della recessione globale – prosegue -. Se consideriamo i dati consolidati al secondo trimestre dell’anno registriamo una diminuzione di 470 mila occupati rispetto al primo trimestre di quest’anno, come dire che la pandemia si è portata via già quasi mezzo milione di posti di lavoro. Sono 841 mila in meno se si fa il paragone con il secondo trimestre dell’anno scorso, quindi su base annua. Se poi si guarda nello specifico a chi ha perso il posto di lavoro si può notare che sono soprattutto giovani e donne. Non è un caso. In Italia abbiamo un tasso di disoccupazione giovanile fra i più alti in Europa, mentre il tasso di attività femminile è semplicemente il più basso di tutti i Paesi membri. Si tratta dunque di problemi che esistevano già e che dimostrano come donne e giovani nel nostro Paese siano tenuti ai margini del mercato del lavoro. Questo è un chiaro esempio di come si siano rafforzati dei processi che erano già in atto».

Quindi questa crisi non ha fatto che acutizzare tanti dei mali atavici del nostro Paese?

Ci sono tanti segnali che lo confermano. Allargando lo sguardo al mondo della scuola, oggi il problema sembra essere quello dei banchi singoli con le rotelle che non arrivano, ma non dimentichiamoci che l’anno scorso si discuteva del contributo volontario delle famiglie, che poi tanto volontario non era, che serviva a comprare la carta igienica nelle scuole. Parlando di sanità, noi veniamo da anni di contenimento della spesa pubblica e di chiusura dei presidi sanitari sul territorio. Il Covid-19 non ha fatto altro che mettere a nudo le conseguenze di queste decisioni. Ora si manifesta da più parti la necessità di tornare proprio a una medicina territoriale per evitare che durante i picchi pandemici la pressione sugli ospedali diventi insostenibile. Anche lo smart working, che la scorsa primavera abbiamo vissuto come una novità, non è stato altro che un colossale esperimento di massa di un processo già in atto grazie alla penetrazione delle tecnologie digitali nelle biografie personali di chiunque. Quindi, come dicevo, abbiamo assistito a un’accelerazione, sia in positivo che in negativo, di processi già in atto. La vera eredità di questa pandemia, nel momento in cui ne usciremo grazie a un vaccino o a terapie efficaci, sarà un rapporto fra debito pubblico e Pil che si attesterà fra il 160 e il 170%, o anche oltre. Alla fine, anche l’economia ripartirà e auspicabilmente recupereremo i posti di lavoro persi, ma avremo un’Italia con i conti pubblici spinti su una china veramente pericolosa. C’è da interrogarsi con urgenza su come un Paese a bassa crescita come il nostro possa sostenere un debito pubblico di questa portata. Questo dovrebbe essere il punto su cui ragionare per affrontare le grandi sfide di modernizzazione che sarà necessario affrontare. Il rischio è quello di ritrovarsi a fare delle scelte in uno scenario caratterizzato dal primato del vincolo esterno. Quando sei debole, ti esponi al rischio che qualcun altro decida per te. La classe dirigente purtroppo ragiona in termini temporali strettissimi, guidata da una ricerca costante del consenso elettorale, da incassare in tempi brevissimi. È venuto il momento di pensare al futuro guardando a scenari più ampi, cercando di immaginare che cosa sarà il Paese non domani, ma fra trent’anni.

Un tema che necessariamente dovrà essere messo al centro dell’agenda politica è quello demografico?

Certamente. Un istituto di statistica serio come l’Eurostat ha un modello previsionale che dal punto di vista demografico segnala per il 2050 una netta diminuzione della popolazione italiana: da qui ai prossimi trent’anni avremo perso quattro milioni e mezzo di abitanti. È come se le due principali città italiane, Roma e Milano, fossero cancellate. Tutto ciò è conseguenza del calo delle nascite che stiamo sperimentando da anni. Dal 1861, anno dell’Unità d’Italia, non si sono mai fatti così pochi figli. Non tutti hanno la consapevolezza che dal 2015 i nuovi nati non compensano più i decessi. Secondo le stime fatte da un altro istituto prestigioso come il centro studi della Banca d’Italia, questo trend demografico è destinato a riflettersi sul Pil, destinato a una contrazione molto consistente, conseguenza della diminuzione della popolazione attiva. Le stime più fosche indicano un crollo cumulato del 20% da qui ai prossimi trent’anni, ma anche l’ipotesi più benevola mette in evidenza una flessione importante, fra il 7 e l’8%.

Come può fare un Paese con queste prospettive a sostenere un debito pubblico di tale portata?

Questo è il vero problema che nessuno sembra voler affrontare. Visto lo scenario demografico, l’unica strada percorribile è quella di saturare tutta l’energia lavorativa disponibile. Questo significa agire maggiormente sui segmenti che citavo prima e che sono marginalizzati dal mercato del lavoro, ovvero le donne e i giovani. Il tasso di attività femminile in Italia è del 57%, siamo il fanalino di coda in Europa, in Germania il dato si attesta al 75%, in Svezia supera l’81%. A questo si aggiunge un tasso di disoccupazione giovanile fra i più alti a livello continentale: siamo i peggiori insieme a Grecia e Spagna. Questi sono i due punti su cui lavorare. Poi ce ne sarebbe un terzo, ovvero l’immigrazione, sul quale al momento è difficile fare discorsi seri, perché tutta l’attenzione è focalizzata sull’emergenza e la prima accoglienza, mentre sarebbe necessario affrontare con lucidità la questione. Ad esempio, non esiste un serio decreto flussi che risponda al fabbisogno di capitale umano da fare arrivare dall’estero.

Che idea si è fatto su come il nostro Paese si è riorganizzato di fronte all’emergenza?

Ha vinto la paura, da parte di tutti. C’è stata una prima fase di interventi nell’emergenza, in qualche modo doverosi: i tanti bonus e sussidi che sono stati messi in campo, la cassa integrazione in deroga, accompagnata al blocco dei licenziamenti per decreto. Nonostante queste iniziative, abbiamo già perso 470 mila posti di lavoro, come già detto: prevalentemente giovani con contratti a termine. Si è intervenuti con misure tampone, perché era doveroso sostenere il reddito di ampi strati della popolazione. In generale posso dire che c’è stata una buona tenuta sociale, ma tutto questo avrà un prezzo, un debito pubblico fuori misura. Adesso ci muoviamo in un sistema drogato, basato sui sussidi pubblici, ma non potrà durare per sempre, per questo bisogna iniziare a pensare al dopo e i prossimi mesi saranno impegnativi. È necessario entrare in una seconda fase. Lo choc che abbiamo vissuto ci deve aprire gli occhi. Stiamo vivendo una crisi economica legata all’emergenza sanitaria che ha numeri impressionanti. Nel secondo trimestre del 2020 il Pil è crollato del 18%, però è anche vero che questa non è come la crisi economica e finanziaria esplosa nel 2008, che aveva delle ragioni molto gravi, tanto che mandò in tilt il sistema bancario. Questa crisi è conseguenza del blocco delle attività che ci siamo autoimposti, da un lato, e della paura, dall’altro. Quindi non ci sono fondamenti strutturali gravi come allora. Per tale motivo dobbiamo sfruttare questo momento per risolvere i nostri problemi, alleggerirci delle zavorre e delle palle di piombo che ci penalizzano. Nella psicologia collettiva la paura svanisce solo se si percepisce che questa volta si fa sul serio, se c’è un serio programma di rinnovamento che vada a toccare i nodi strutturali del Paese. L’alternativa è l’incertezza che porta in dote un blocco dei consumi e degli investimenti. In Italia si sta accantonando un enorme lago di liquidità. Nei mesi più duri dell’emergenza sanitaria, tra febbraio e aprile, la liquidità delle famiglie è aumentata di 34,4 miliardi, che è più o meno il valore del MES di cui tanto si discute. E ancora una volta si tratta solo del rafforzamento di una tendenza preesistente. Complessivamente oggi la liquidità degli italiani è pari a circa mille miliardi di euro: corrisponde – solo la liquidità degli italiani – alla sesta economia europea. Queste risorse economiche tenute ferme sono figlie dell’incertezza che la pandemia ha aggravato ancora di più. Le persone hanno paura e si cautelano. Non abbiamo più alibi: il trauma che abbiamo vissuto e la grande disponibilità di risorse pubbliche che sono state messe in campo devono darci lo slancio. Non abbiamo neanche più la scusa dell’austerità imposta dall’Europa, che bloccava gli sforamenti nel rapporto fra deficit e Pil: il patto di stabilità è sospeso e c’è un nuovo corso a Bruxelles, c’è una grande solidarietà, sono state stanziate risorse con valori che, se attualizzati, sono di gran lunga superiori a quelli del Piano Marshall che finanziò la ricostruzione post-bellica. È venuto il momento di rimboccarsi le maniche e agire. Piuttosto che disperdere le risorse in mille rivoli, in tanti piccoli sussidi, sarà fondamentale individuare i tre o quattro asset strategici e di sviluppo su cui investire per cambiare il Paese.

Nel suo libro, “La notte di un’epoca”, ha fotografato la “società del rancore”. Viviamo una fase post ideologica in cui i sogni sembrano andati in frantumi. Partendo da questi presupposti diventa difficile immaginare un futuro. Al di là delle politiche economiche, per ripartire è necessario lavorare su un nuovo immaginario collettivo?

Viviamo in un Paese dove da anni l’ascensore sociale è bloccato. La tacita promessa che i figli avrebbero sicuramente goduto di un benessere materiale maggiore rispetto ai propri genitori oggi è disattesa. È stato così fino all’attuale generazione di giovani: la prima che ha prospettive peggiori dei propri padri e delle proprie madri. È sicuramente un inedito nella nostra storia sociale. Non è un caso che tanti laureati italiani siano andati a lavorare all’estero, impoverendo ulteriormente il nostro tessuto sociale. Se non si danno prospettive è chiaro che soprattutto i soggetti più penalizzati cerchino la propria fortuna da un’altra parte. I nostri laureati in media guadagnano un quarto in meno rispetto ai loro colleghi europei. Serve una trasformazione del Paese in grado di risollevare questa situazione e che rimetta in moto quei meccanismi di ascesa sociale che si sono inceppati. La dimensione immateriale in questa sfida è molto importante. Se si confronta un trentenne di oggi con un suo coetaneo di 50 anni fa gli immaginari sono completamente diversi. I secondi avevano una prospettiva di crescita, una direzione da seguire, un percorso segnato per salire i gradini della scala sociale. Una cosa che manca ai giovani di oggi, che fanno fatica a capire anche il valore dello studio. L’acquisto della casa è un miraggio, il lavoro è precario, o cercato e non ottenuto. C’è bisogno di alimentare un immaginario positivo che faccia accettare i rischi. Serve una buona iniezione di fiducia. Questa è fondamentale per far ripartire gli investimenti privati, di famiglie e imprese, i grandi assenti di questa fase.

All’Italia sembra mancare progettualità, indipendentemente dal Covid. Di che tipo di leadership abbiamo bisogno per avviare questo programma di innovazione e trasformazione del Paese?

La leadership di cui abbiamo bisogno per prima cosa non deve concentrare le proprie energie nella ricerca quotidiana del consenso. Il vero leader è quello che riesce a scrutare l’orizzonte sopra le teste degli altri, invece di guardare ai piccoli vantaggi immediati. Questa è la risposta che si attendono i cittadini. Siamo tutti assetati di futuro. Un ragazzo negli ultimi vent’anni ha sentito parlare solo di crisi, sono stati due decenni depressogeni. Anche i genitori sono avvitati in questo meccanismo, scoraggiati. In generale viviamo una perdita di orgoglio identitario. Si è perso il senso di comunità e sono poche le cose che ci inorgogliscono. Viviamo una stagione di frustrazione, ecco perché è venuto il momento di fare i conti con noi stessi e di cogliere questa occasione per voltare pagina.