Il coraggio dell'utopia

Il leader nell’era dell’economia della consapevolezza. Una conversazione con Niccolò Branca

Il ritratto del leader contemporaneo nelle parole di Niccolò Branca, Presidente e Amministratore Delegato di Branca International, intervistato dal Presidente di ASFOR Marco Vergeat in occasione dell’XI Leadership Learning Lab organizzato lo scorso 19 novembre dall’Associazione Italiana per la Formazione Manageriale presso l’Università Cattolica di Milano


Una personalità contraddistinta da un buon equilibrio fra intelligenza, cuore e coraggio, capace di ascoltare e vedere le situazioni con chiarezza, con un alto livello di consapevolezza: è questo il ritratto che Niccolò Branca, Presidente e Amministratore Delegato di Branca International, disegna del leader contemporaneo. Una persona capace di condurre gli altri al raggiungimento degli obiettivi in maniera autonoma, nel rispetto delle persone e dell’ambiente, grazie a una mente chiara, aperta e allo stesso tempo flessibile. Lo scorso 19 novembre l’imprenditore, alla guida della holding che controlla la storica azienda operante nella produzione e distribuzione di bevande alcoliche fondata da Bernardino Branca nel 1845 a Milano, è intervenuto al Leadership Learning Lab di ASFOR, convegno annuale che l’Associazione Italiana per la Formazione Manageriale dedica ai temi più rilevanti della cultura d’impresa e della leadership. L’intervento ha avuto la forma di una intensa e ampia conversazione con il Presidente di ASFOR Marco Vergeat. Ne proponiamo un estratto ai lettori di formaFuturi.

Lei rappresenta un connubio di imprenditorialità, managerialità e passione umanistica. L’incontro fra management e cultura non è presente solo nella sua biografia, ma si respira anche all’interno della sua azienda. Quale ruolo e rilevanza ha avuto questa impronta umanistica nel caratterizzare le sue scelte imprenditoriali e quindi la sua leadership?

È qualcosa che era dentro di me. A un certo punto del mio percorso mi sono messo in discussione: volevo capire bene quali fossero i miei plus e i miei minus. Così ho iniziato un percorso di autoconoscenza, una cosa che credo sia fondamentale per ognuno di noi. Ho attinto alla psicologia, ai classici greci, alla meditazione, a varie fonti della conoscenza e quindi all’epistemologia in senso lato. Questo per me è stato un grande arricchimento perché mi ha aiutato a comprendere come noi siamo parte di un tutto. Noi stessi siamo un tutto e a questo tutto noi possiamo attingere. A quel tempo ero Direttore di una collana, “Saggezza, scienza e tecnica”, e con un gruppo di persone avevo fondato una prima società finanziaria. Era strutturata come una public company: nessuno poteva detenere più del 3% di quote, le persone che lavoravano con noi avevano delle azioni, così come chi portava dei capitali in gestione. Questo perché si dovevano valorizzare al massimo gli investimenti delle persone. In questa esperienza e in quelle successive, precedenti al mio rientro in Branca, avevo già ben chiara l’idea che l’economia non fosse una scienza esatta, ma un insieme di idee e pensieri fatti dall’essere umano. Non può essere solo relegata al business, alla produzione e al ritorno economico. Tutti hanno a che fare con l’economia. Quindi bisogna uscire da questa mentalità binaria e dicotomica, mettendo al centro l’essere umano e l’ambiente. Di queste cose parlavo già nei primi anni ’90, quando mi chiamavano a intervenire in diversi consessi. Ma poi mi dicevano “tu rappresenti società che sono piccole, mettere in pratica questi principi in grandi realtà è difficile”.

Poi nel 1999 c’è stata per Lei l’opportunità di rientrare nell’azienda di famiglia…

Ci ho pensato bene prima di decidere, la qualità della mia vita era molto buona, potevo investire molto tempo in ciò che mi interessava. La spinta decisiva venne dal pensare che poteva essere l’occasione per mettere in pratica tutto ciò che mi era stato trasmesso, di sperimentare un modo nuovo di fare economia, nuovi paradigmi. Questo poi è avvenuto intervenendo sull’architettura dell’azienda, promuovendo e affrontando i cambiamenti all’interno della società e facendo fronte a un evento drammatico come il default dell’Argentina nel 2001. È un percorso ancora in divenire, non siamo ancora arrivati a definire un modello. Questo significa mettere insieme tante sfaccettature, aspetti che noi abitualmente tendiamo a tenere separati, perché siamo abituati ad avere una mente dicotomica… la scienza da una parte, lo spirito dall’altra… invece non ci rendiamo conto che tutto coopera al benessere dell’individuo, perché noi siamo un tutt’uno.

Leggendo il suo libro, “Per fare un manager ci vuole un fiore”, emerge proprio la rilevanza dell’esperienza argentina. Dalla sua narrazione si ricava come questa “integrazione” di diversi aspetti della personalità sia stata funzionale non solo a reggere l’urto delle difficoltà, ma l’abbia aiutata a prendere le decisioni giuste in uno scenario particolarmente complesso. Si tratta di aspetti a cui non siamo abituati a dare un valore così elevato.

L’Argentina ha rappresentato una delle più belle esperienze della mia vita. Sono arrivato alla fine del 1999 e sentivo che c’era un clima particolare, stava succedendo qualcosa. Posso dire che quello è stato come un esame, dovevo mettere in pratica tutto quello che avevo imparato sino ad allora. Stavo in azienda, ma sfruttavo ogni occasione per andare in giro per il Paese. Cercavo di ascoltare più che udire. Saper ascoltare è un qualcosa di unico, rappresenta una delle qualità più importanti che un leader deve avere, così come la capacità di vedere invece di limitarsi a guardare. Questo significa andare al di là dei propri filtri. Nella filosofia della nostra azienda c’è l’impegno a investire il 70/75% dei ritorni. Parliamo di una realtà che da 176 anni è in mano alla stessa famiglia e non è così comune. Il segreto di questo percorso sta negli investimenti in innovazione, sulle persone, sui processi produttivi. Anche in Argentina avevamo da parte un tesoretto, ma sentivo dentro di me che in quel momento sarebbe stato utile portarlo via dal Paese. Questa idea aveva generato dei malumori naturalmente. Ma ho capito che in certi momenti è fondamentale per chi deve prendere delle decisioni fare silenzio nella propria mente. Fu così che decisi di cambiare tutti i pesos in dollari e di trasferirli negli Stati Uniti. Dopo pochi mesi, lo Stato argentino è andato in fallimento. Se non avessi fatto quella scelta quel tesoretto si sarebbe ridotto a un terzo, per non parlare poi degli effetti che avrebbe avuto su di esso un’inflazione fuori controllo. Quella decisione ci ha consentito di continuare a pagare gli stipendi e di comprare le materie prime per le nostre produzioni, insomma di reggere all’urto del crollo del Paese.

Ma quella non fu l’unica decisione importante che prese…

L’Argentina era al default, le banche erano chiuse, la situazione non migliorava. Convocai la prima linea dell’azienda. Lamentarsi è uno sport internazionale, ma è inutile perché ci porta fuori dalla “presenza” e non ci dà la possibilità di trovare delle soluzioni. Quello che volevo far comprendere ai nostri manager era che la vita ci stava dando una grande opportunità: dare il meglio di noi stessi per capire come uscire da quella situazione. Avevamo di fronte tre possibilità. Un’azione aggressiva, che avrebbe voluto dire chiudere l’azienda, una cosa che avrebbero potuto fare tutti in quel contesto. Un’azione conservativa, da buon padre di famiglia, ovvero guardare le entrate e capire cosa fare con quei soldi. Ma anche questa scelta avrebbe fatto morti e feriti. Poi avevamo di fronte una terza via, quella creativa: non manifestare avversione verso la situazione che stavamo vivendo, ma aprire la mente per capire come agire. Albert Einstein diceva che non si può trovare la soluzione a un problema se uno si pone allo stesso livello di coscienza in cui quel problema si è creato. Serve un salto quantico.  Faccio una premessa: il Fernet è un prodotto che prevede almeno un anno di invecchiamento, con un costo importante e non volevo cambiarne la formula tradizionale e aggiungo “magica”. Così nacque l’idea di creare un altro amaro, di pronta beva, non invecchiato e quindi collocabile sul mercato a un prezzo molto più basso, più alla portata dei consumatori in quella situazione. Questa decisione ha avuto qualche contestazione, perché noi siamo un brand premium e quella scelta poteva rivelarsi rischiosa in prospettiva. Ma bisogna tenere presente che la mappa non è il territorio e che a volte bisogna agire in modo diverso, serve la flessibilità, che è un’altra prerogativa del leader. Anche grazie a questa decisione in quei due anni difficili l’azienda è andata avanti, non ha licenziato nessuno e oggi, dopo quasi vent’anni, l’Argentina è il mercato dove vendiamo più Fernet.

Oggi i vostri prodotti sono commercializzati in cinque continenti e in 160 Paesi. Il motto che vi tramandate da sei generazioni e che si ritrova entrando nella vostra azienda è “Novare Serbando”. Cosa significa in concreto?

Per tutte le aziende, soprattutto quelle con una lunga storia, come la nostra, non tagliare e non ignorare le radici è fondamentale.  All’interno della nostra sede di Milano abbiamo anche un museo e ogni volta che arriva una persona nuova è previsto proprio un approfondimento museale come parte del percorso di inserimento in azienda. Questo significa non limitarsi alla conoscenza dei prodotti, ma immergersi nel passato dell’impresa, nella sua filosofia, nel suo modo unico di gestire la produzione. Ai primi dell’Ottocento, ancora prima che nascesse l’azienda, Bernardino Branca nel suo laboratorio creava un prodotto erboristico, il Fernet-Branca. Un prodotto la cui formula è segreta, con dosaggi e processi produttivi che sono garanzia di qualità. Se ignori o sottovaluti queste cose snaturi il brand. Ringrazio quelli che mi hanno preceduto per non essersi fatti irretire dalle sirene del momento e di aver mantenuto ben saldi quei valori che sono parte di quel fare italiano che è un’eccellenza riconosciuta in tutto il mondo. Non dimentichiamoci che il prodotto nasce dal connubio fra la natura e il sapere fare.  Ma “serbare” però non significa rimanere quello che si era, perché la vita è cambiamento, trasformazione. Bisognerebbe elogiare l’incertezza che deriva dai processi di cambiamento perché è nel cambiamento che possiamo migliorarci. Questo ci spinge a riattualizzare i nostri brand e a proporre nuovi paradigmi. Quindi è fondamentale innovare, ma questa innovazione va portata avanti senza improvvisazione.

Un’altra parola chiave che lei cita spesso è consapevolezza…

Consapevolezza è esserci, è quell’essere presenti che menzionavo prima. In questo momento storico è importante aiutare la consapevolezza a sbocciare. Ognuno di noi, se fa un esame di coscienza, vede quante volte durante il giorno è poco presente e consapevole. La società oggi lavora per portarci fuori dalla consapevolezza. Invece è fondamentale osservare, non solo quello che ci circonda, ma anche quello che abbiamo dentro di noi. La consapevolezza è un bene fondamentale, è un valore per ogni essere umano, al di là del proprio credo, perché ci fa radicare a terra, ci immerge nella quotidianità, fornendoci gli strumenti per farle fronte. È una luce che ci consente di percepire l’interdipendenza, l’impermanenza, la legge di causa ed effetto. Solo così si potrà instaurare un nuovo modo di agire che non sarà più dettato unicamente dal massimo ottenimento per noi stessi, ma si orienterà a un benessere che coinvolge gli altri e l’ambiente. Questo abito mentale mette in moto un agire più saggio e questa, a mio avviso, è un’altra funzione che spetta al leader.

Per lei la buona gestione di un’azienda è una questione di equilibrio: il profitto è un mezzo necessario, deve essere perseguito, ma se lo si concepisce come l’unico valore che conta davvero forse non si è capito del tutto cos’è un’impresa…

C’è bisogno di un equilibrio dinamico. Un’azienda deve essere consapevole, passando da una logica del potere a una logica della responsabilità. Essere consapevole vuol dire anche essere capace di dare delle risposte. Alle persone che lavorano con me, ai miei manager, io non assegno dei poteri, ma delle responsabilità. Solo così posso dare un senso al loro operare all’interno dell’impresa. E questo aspetto è fondamentale per un leader. Ho stilato, ormai vent’anni fa, un codice etico all’interno della società che ha come principio fondamentale quello di trattare le persone come fini e non come mezzi. La stessa cosa la chiediamo ai nostri fornitori e si riflette anche sulle nostre attività di marketing, così come nella pubblicità, etc… Qualsiasi azienda deve tendere ad avere un ritorno sugli investimenti. Ma deve essere un utile generativo che le consenta di investire in ricerca, sviluppo, innovazione, di pagare le tasse che poi è un modo di restituire qualcosa alla società. Un’azienda è un organismo vivente a sua volta parte di un organismo più grande. Quindi trovare l’equilibrio significa perseguire un ritorno economico, ma farlo nel rispetto delle persone e dell’ambiente.

Uno degli effetti della pandemia è la diffusione dello smart working. Lei cosa pensa delle modalità di lavoro ibrido che si sono affermate negli ultimi due anni?

Lo smart working è qualcosa di essenziale che ci ha consentito di continuare a lavorare durante l’emergenza. Noi facciamo produzione, per cui una parte del nostro personale è stata sempre presente in azienda, anche in quei periodi del 2020, quando si viveva in un clima plumbeo. In fabbrica la mattina eravamo poche persone. Ci voleva dedizione, coraggio. Quando le cose sono migliorate, però, la mia scelta personale è stata quella di fare tornare tutti in sede, attivando i protocolli di sicurezza necessari. L’azienda per me è un organismo vivente, noi siamo in relazione, siamo in interdipendenza. Come si può vivere un’azienda, un progetto, un prodotto, se noi siamo dall’altra parte del mondo? Se non ci vediamo, se non ci parliamo! È essenziale creare sinergia che non è altro che quel giusto equilibrio fra egoismo e altruismo che ci consente di trovare la soluzione a un problema, al di là dei condizionamenti personali.  In tutta questa fase non abbiamo trascurato il ruolo della formazione, per dare alle persone la possibilità di conoscere modi di pensare differenti, utili ad aprire la mente.  Relazionarsi, avere contatto, comunicare è fondamentale per trasmettere alle persone le strategie, i piani e i progetti e farne tutti partecipi. E di persona questo si può fare molto di più. Non facciamoci possedere dai social e dal mondo digitale. L’essere umano e la relazione devono tornare a essere centrali, così come l’ambiente.

 

IL PERSONAGGIO

Niccolò Branca è Presidente e Amministratore Delegato di Branca International SpA, holding che controlla l’italiana Fratelli Branca Distillerie SpA, l’argentina Fratelli Branca Destilerías SA, l’americana Branca USA Inc., la Branca Real Estate Srl e il Centro Studi Fratelli Branca Srl. Alla guida dell’azienda dal 1999, si è impegnato nella definizione del riassetto societario, nell’innovazione del portafoglio prodotti, nella creazione di una struttura dedicata all’export e in consistenti investimenti in Ricerca e Sviluppo. Ha rafforzato ed esteso le posizioni del Gruppo nei mercati di Nord Europa, Nord e Sud America e Australia. Con la famiglia ha fondato il Museo Collezione Branca, tra i primi musei italiani. Attualmente è consigliere di Federvini e fa parte del Consiglio direttivo di Centromarca e di Upa.
Umanista e scrittore, ha compiuto studi umanistici e di psicologia, che ha coltivato negli anni come presidente di Kosmos Ethos, associazione di ricerche per un’epistemologia del sapere, come vicedirettore del magazine di ricerche olistiche “Cyber – Stati della coscienza” e con la direzione della collana “Saggezza scienza e tecnica” edita dalla Nardini.
Tra le molte attività è stato anche uno dei fondatori di Fidia Partecipazioni SpA, società finanziaria divenuta poi Banca Ifigest SpA, di cui è stato presidente, è socio di MainStreet Partners, società di investimento basata a Londra e leader in Europa nel campo degli investimenti sostenibili, nonché membro del Comitato Investimenti di Epic. Ha fatto parte del Comitato di “Idea Taste of Italy”, primo fondo d’investimento dedicato al settore agroalimentare e attualmente ricopre la carica di presidente del Consiglio di Amministrazione per la New Investment Company S.p.A, società finanziaria e di M&A.
Tra i numerosi riconoscimenti: il San Marino Green Awards, per la categoria “Etica Sociale”; il CEO Italian Award 2019 di Forbes e Business International per la categoria Food & Wine; il riconoscimento della UADE (Universidad Argentina de la Empresa) per gli eccezionali trascorsi nella gestione aziendale e l’impegno per l’istruzione; la nomina di Cavaliere Ufficiale dell’ordine di Sant’Agata e il Premio Internazionale “Il Leader Consapevole” da parte della Repubblica di San Marino; il Premio “Crescita & Sostenibilità”, menzione speciale, del Premio eccellenze d’impresa; il titolo di Cavaliere del Lavoro, conferitogli nel 2013 dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano; la nomina come professore onorario presso la Universidad del Salvador di Buenos Aires, il Premio Risultati promosso da Bain & Company, Il Sole 24 Ore, Centrale dei bilanci e Università L. Bocconi di Milano, il premio Di Padre in Figlio – Il gusto di fare impresa, per il miglior passaggio generazionale e la menzione speciale per la categoria Performance Finanziaria.