Economie del futuro

Il mestiere del formatore nell’era del lavoro rarefatto

Aristotele nella sua “Poetica” prescriveva un codice narrativo caratterizzato da unità di tempo, di luogo e di azione, ovvero la storia doveva compiersi nello stesso arco di tempo, stesso spazio e attorno a uno svolgimento organizzato su un evento principale. Se il lavoro fosse una storia, quello di oggi avrebbe perso queste tre caratteristiche aristoteliche: i nuovi modelli organizzativi, anche a seguito della remotizzazione, consentono ai membri della stessa organizzazione di lavorare da luoghi anche molto distanti tra loro, in modo anche completamente asincrono, su dossier e oggetti che possono anche non incontrarsi mai, per favorire la più ampia autonomia organizzativa.

Questo lavoro che ha perso unità di luogo, di tempo e di azione, se da un lato espande le possibilità di partecipare alla storia (consente di meglio conciliare la professione con la sfera privata, di abitare luoghi remoti, di usare meglio il tempo) rischia di non avere più una trama comune. Come cambia il mestiere della formazione e del formatore in questo contesto? Due le sfide principali.

La prima riguarda la formazione che abilita le nuove forme di lavoro. I nuovi modelli organizzativi richiedono, per funzionare, la disponibilità di nuove abilità. Non si tratta solo delle competenze digitali, ma più complessivamente della messa a disposizione di forme di organizzazione del lavoro che siano capaci di valorizzare l’autonomia dei singoli, che strutturino i sistemi di supervisione e controllo sui risultati, che abilitino forme di collaborazione disintermediata. Allo stesso tempo, laddove i canali sono sempre più digitali, anche la comunicazione richiede nuovi riti, nuove prassi e persino un nuovo galateo digitale, che consenta ai membri di un’organizzazione smaterializzata di non smettere di capirsi, anche se senza il supporto della prossemica e di quelle forme di comunicazione che si basano sulla presenza nello stesso spazio fisico. Questa formazione si rivolge ai singoli e ha come finalità il potenziamento delle loro abilità per meglio abitare le organizzazioni rarefatte e si rivolge, con obiettivi differenziati, ai team leader e ai team member.

Ma esiste una seconda sfida della formazione nell’era del lavoro rarefatto, che non ha per obiettivo come abilitarlo, ma come – in qualche modo – compensarne le mancanze. Infatti, la perdita dell’unità di tempo, di luogo e di azione e il conseguente rischio di smarrimento di una trama organizzativa comune può fare perdere senso di appartenenza, spirito collaborativo, soddisfazione del bisogno di affiliazione, gratificazione data dai processi di socializzazione quotidiana.

In questo contesto, la formazione può diventare l’occasione per restituire quell’unità di tempo, di luogo e di azione che si è persa nel quotidiano. Riunire un gruppo che opera in remoto nello stesso luogo, nello stesso momento, a lavorare sullo stesso oggetto può rappresentare un’esperienza che acquisisce oggi più di ieri un valore trasformativo che più che team building è team caring, ovvero un modo per prendersi cura del team. Questo secondo tipo di formazione non si rivolge ai singoli, ma al gruppo. Non ha obiettivi differenziati, ma comuni. Non serve a diventare singolarmente più performanti nel nuovo contesto di lavoro, ma ad esserlo come collettivo che riscopre modalità di interazione non filtrate dai dispositivi digitali e torna a umanizzare le relazioni alla base degli scambi organizzativi.

Non si tratta di due approcci alternativi, ma del tutto complementari, per quanto diversi nelle modalità. Il primo tipo, infatti, è del tutto compatibile con la possibilità di offrire l’esperienza formativa attraverso i canali digitali e in modalità asincrona. Funziona tanto più quanto più utilizza al meglio la vera risorsa scarsa delle persone, ovvero il tempo: moduli brevi, online, ad alto valore aggiunto. Al contrario, la formazione che vuole recuperare unità di tempo, di spazio e di azione non può che essere in presenza, su tempi più espansi e basata su metodologie di didattica attiva.

Ma, come spesso accade per la formazione, è difficile chiedere qualcosa di cui non so di aver bisogno. E così, la formazione che aiuta a ridurre la rarefazione e a ricompattare la vita organizzativa si scontra con routine incompatibili, a partire dalla difficoltà di identificare momenti e luoghi compatibili con le esigenze di tutti, e con l’ostilità di chi la percepisce del tutto distonica rispetto alle modalità di lavoro dominanti. Come uscirne?

L’apprendimento è una pratica di libertà: le persone prendono per sé quello che ritengono utile e interessante per migliorare la propria esperienza, in questo caso, organizzativa. Pertanto, l’offerta di un’esperienza formativa non può che essere la risposta a un bisogno di cui si matura la consapevolezza: una componente del mestiere del formatore è anche quella di diagnosticare lo smarrimento delle trame comuni e delle conseguenze per l’efficacia organizzativa. Per poi offrire risposte puntuali, tra proposte di soluzioni per abilitare la rarefazione organizzativa. O per compensarla.