La pandemia è stata un acceleratore di processi su molti fronti, dalle tecnologie di sintesi di vaccini e farmaci, alle metodologie di organizzazione del lavoro da remoto fino alle modalità di apprendimento a distanza. Abbiamo assistito a un gigantesco esperimento sociale come se ne vedono solo nelle fasi di grande crisi, quali le guerre, le catastrofi e appunto le grandi pestilenze, quando le società si trovano costrette a sperimentare in corpore vivo tutto un complesso di soluzioni organizzative e di dispositivi tecnologici in via di definizione che avrebbero richiesto ancora anni di studi e sperimentazioni prima di una loro adozione su scala di massa in situazioni di normalità.
L’agire sotto l’impellenza della necessità rende rischiosi i processi, non concede il tempo di prevedere tutti gli effetti di retroazione e di operare le necessarie manovre di aggiustamento: i tempi impongono di essere temerari. In un Paese come il nostro, fortemente normato e contraddistinto da una rete di competenze assai complessa che spesso si sovrappongono ed elidono (il federalismo incompiuto italiano), l’introduzione di processi innovativi è ancor più difficile perché occorre far collimare la condizione di eccezionalità determinata dal fatto pandemico con i vincoli “tradizionali” che normano le tecniche le loro applicazioni.
Inoltre, la discrasia temporale che intercorre fra il momento della “necessità emergenziale” ed i successivi controlli da parte delle autorità competenti, quando ci si misura su terreni legati alla spesa pubblica, tende a favorire una interpretazione “tradizionale” delle norme allora vigenti rispetto allo spirito di “innovazione adattiva” che spesso ha segnato le gestioni in fase emergenziale.
Tutte queste premesse per spiegare come l’esperienza della “Didattica a distanza” dentro il sistema della Formazione Continua finanziata dai Fondi Interprofessionali sia stata una complessa operazione di sperimentazione di tecnologie e metodologie oramai mature dentro un sistema culturalmente non necessariamente pronto, governato da normative datate e spesso disomogenee sul piano nazionale e supportato infrastrutture non sempre adeguata alle esigenze.
Proviamo rapidamente ad esaminare le varie questioni che, dal punto di vista di un gestore di Fondo Interprofessionale, abbiamo dovuto affrontare quando la condizione pandemica ci ha imposto l’adozione massiccia della soluzione della didattica a distanza per proseguire le attività da noi finanziate ad imprese ed enti di formazione.
La didattica a distanza oltre la nicchia
La didattica a distanza, sia sincrona che asincrona, non era nuova, nel febbraio/marzo 2020, nelle esperienze del Fondo: da anni una percentuale pari a circa il 10% delle ore finanziate sul conto di Sistema erano svolte in tale modalità; inoltre, molte grandi imprese da tempo utilizzavano questo strumento a valere sul conto formazione.
Tuttavia, questa modalità formativa risultava apprezzata e utilizzata soprattutto in ambito di aziende medio grandi e rivolta a un’utenza con un portato scolastico di partenza medio alto. Questo voleva dire che esisteva una competenza diffusa nell’utilizzo e nella fruizione di DaD fra soggetti attuatori e fra gli utenti, ma che questa competenza era una competenza di nicchia.
Nel giro di pochi giorni ci siamo trovati a dover rendere erogabile, ai sensi di quanto disposto dalla Conferenza Stato-Regioni, solo la DaD per continuare le attività formative in corso o iniziare l’erogazione di nuove attività. Ciò ha significato chiedere ai soggetti attuatori di trasformare le progettazioni approvate in attività in DaD, riprogettando le attività, ricostruendo il patto formativo con gli utenti finali e i datori di lavoro ed individuando docenti in grado di operare in questa modalità.
Ovviamente il primo vincolo incontrato dagli attuatori è stato legato al tipo di formazione che si intendeva erogare: non tutte le attività, infatti, si prestavano a essere riprogettate in modalità DaD. In particolare, le attività basate su pratiche esperienziali o su processi di affiancamento (tranne poche eccezioni) non erano riconducibili alla modalità DaD e quindi le aziende hanno dovuto accantonarle e rimandarle a tempo da destinarsi utilizzando le proroghe alla attività formativa che il Fondo aveva nel frattempo accordato.
Le problematiche tecniche e culturali
Il secondo problema incontrato era quello tecnico legato alla disponibilità di dispositivi utili a questo tipo di formazione, non sempre presenti in numero sufficiente nei luoghi di lavoro o nelle abitazioni, alla difficoltà legata alla scarsa connettività (problema che ha drammaticamente penalizzato il Sud e le aree interne), la qualità delle piattaforme utilizzate per l’erogazione e dei materiali didattici di supporto e la disponibilità e preparazione del personale docente e dei tecnici di supporto. Tutte queste problematiche hanno fortemente condizionato l’esperienza.
Il terzo problema è risultato quello legato alla cultura dei diversi datori di lavoro: la maggiore o minore apertura culturale al progresso tecnico e ai processi di digitalizzazione dei diversi datori di lavoro hanno reso più o meno possibile la pratica di DaD nei diversi ambienti di lavoro. Gli imprenditori più tradizionalisti, meno adusi a un utilizzo diffusivo delle tecnologie didattiche, si sono infatti opposti, anche laddove erano presenti le condizioni tecniche necessarie, all’utilizzo della DaD, preferendo rimandare a tempi migliori l’esecuzione del training da svolgersi con modalità più tradizionali.
L’attitudine alla trasformazione
Il quarto problema è stato quello della tipologia di utenza coinvolta nei processi di DaD, laddove vi era la possibilità tecnica di fruirne e il consenso del datore di lavoro: la fruizione di attività in DaD soprattutto in modalità sincrona richiede risorse cognitive in ordine alla predisposizione all’ascolto e alla concentrazione per periodi di tempo significativi, la disciplina allo studio e le competenze digitali minime atte all’uso degli strumenti.
Come ben sanno i formatori l’uso delle aule, dei gruppi, le didattiche attive, gli apprendimenti esperienziali tramite laboratori, l’affiancamento ed altro sono di grande giovamento quando si affrontano platee non più abituate a un costante aggiornamento delle competenze. La modalità DaD che non si giovi di gamification, realtà aumentata, laboratori virtuali o altro ancora, risulta particolarmente ostica per questa utenza, di fatto riducendo il valore dell’esperienza formativa. Non tutti i soggetti attuatori erano in grado di mettere a disposizione, in pochissimo tempo, una strumentazione così complessa da integrarsi con i percorsi di didattica in DaD e ciò ha determinato un limite al numero di utenti raggiungibili utilmente in quella fase.
Un quinto problema, non da poco, è stato quello della normativa che presiede alla conformità della spesa di denaro pubblico, che presiede, dal 2016 al funzionamento dei Fondi Interprofessionali. Infatti, le procedure di trasformazione delle attività previste in DaD hanno richiesto adempimenti formali significativi e complessi, che stanno complicando ancor oggi l’attività di rendicontazione finale dei Piani Formativi attivi in questo periodo: le normative che riguardano l’utilizzo delle piattaforme e dei supporti hanno costituito un limite tecnico non di poco conto. Inoltre, nel corso della terza ondata della pandemia e della zonizzazione delle misure di contenimento hanno imposto una variazione di tipologie di formazione consentita differente da Regione a Regione nei diversi periodi di tempo determinando andamenti alterni di Piani formativi multiregionali. I fondi, consapevoli di operare nell’ambito di un sistema pubblicistico, sono stati attenti ad attenersi rigidamente alle disposizioni delle differenti autorità competenti e questo ha reso ancor più complicata l’attività formativa.
Una sperimentazione senza precedenti
Nonostante tutto questo il calabrone è riuscito a volare: le esperienze di DaD condotte hanno consentito ai soggetti attuatori e alle aziende di svolgere una sperimentazione di dimensioni senza precedenti. Molte aziende e molti soggetti formativi ci chiedono di poter utilizzare questa strumentazione messa a punto, migliorandola e qualificandola, negli anni a venire, avendone ora compreso appieno le potenzialità e avendo costruito un primo mercato di riferimento.
Fondimpresa, sull’onda di questa esperienza, si appresta a varare un nuovo strumento di finanziamento delle attività di formazione in impresa: il Conto di Formazione Digitale. Questo normerà in maniera originale le attività svolte con modalità a distanza sincrone e asincrone, innovando significativamente la normativa dall’ideazione, all’erogazione fino a giungere alla rendicontazione delle attività.
Sicuramente questa esperienza del Conto formazione digitale ci darà spunti per migliorare la normazione di questo tipo di attività anche sul terreno del Conto di Sistema, dopo un doveroso confronto con il soggetto vigilante (ANPAL).
Per stabilizzare e diffondere l’innovazione sarà dunque necessario poter contare su di una connettività diffusa all’altezza della sfida, su supporti tecnici e didattici di eccellenza, vincere la resistenza all’innovazione di una parte del tessuto imprenditoriale e non solo, ma soprattutto, operare una campagna di alfabetizzazione digitale e di rafforzamento delle competenze di base di massa, contrastando il rischio di fenomeni di esclusione che potrebbero aumentare ancor di più la distanza fra chi può e sa operare per rafforzare autonomamente le proprie già significative competenze e chi non riesce ad esercitare questo proprio diritto.
Insomma, il tema è ancora quello che Bertrand Schwartz poneva in un suo bellissimo libro circa vent’anni fa: “modernizzare senza escludere”; su questo i formatori sono chiamati al lavoro.