Vorrei portare al tema della sostenibilità – in questi tempi letto, declamato e vivisezionato in ogni sua parte – tre ulteriori riflessioni che spero possano contribuire a una lettura più razionale e meno ideologica. La prima è relativa alle metriche con cui si misura o si vorrebbe misurare la sostenibilità. Vengono spesso sbandierati i “mitici” SDG (Sustainable Development Goals) che nei fatti restano un grappolo di sogni irrealizzabili. Uno per tutti la cancellazione della povertà: “Entro il 2030, eliminare la povertà estrema per tutte le persone in tutto il mondo” oppure “Entro il 2020, costruire la resilienza dei poveri e di quelli in situazioni vulnerabili e ridurre la loro esposizione e vulnerabilità a eventi estremi …”.
Oggi ogni grande azienda apre il proprio storytelling sulla sostenibilità richiamando questi principi (il che ricorda l’ipse dixit in voga nel Medioevo) affermando di averli pienamente sposati e di aver deciso di concentrarsi su un sottoinsieme per avere un maggiore impatto. D’altra parte, è risaputo che obiettivi troppo ambiziosi e sfidanti – nei fatti irrealizzabili – si trasformano facilmente in dichiarazioni di principio oppure in alibi, così da potersi accontentare di qualcosa di molto distante dal proposito originario. Un compromesso considerato comunque accettabile vista la dimensione della sfida. Se poi gli obiettivi sono molti, la scelta di quelli più coerenti (nella zona di comfort diremmo noi) viene ancora più naturale. Risultato: tutte le grandi aziende stanno facendo cose importanti sulla sostenibilità e ne sono fiere … anche se nell’anno successivo faranno ancora di più.
Ciò che serve, io credo, è ottenere un impatto integrale e positivo che sia sufficientemente buono – «good enough» se volessimo rubare l’espressione al pediatra e psicoanalista inglese Donald Winnicott. Un impatto in grado di agire simultaneamente e sinergicamente su tre dimensioni (economica, sociale e ambientale) per innescare e “sostenere la sostenibilità” di lungo termine ma soprattutto con obiettivi realistici e fattibili. Winnicott sapeva che la madre perfetta non solo era irrealistica, ma finiva con il suggerire un modello imitativo disfunzionale, capace cioè di creare non solo alibi ma anche frustrazioni per la sua irraggiungibilità.
Un cambio di mentalità
La seconda riflessione è relativa al cambiamento di mentalità dei decisori delle aziende, i veri protagonisti degli impatti dell’economia sulla società e l’ambiente. Non è sufficiente comunicare quanto di bene si fa all’ambiente e alla società nei bilanci di sostenibilità. Questo tipo di comunicazione rischia sempre due tipi di derive: la sovra-comunicazione – che tende a essere manipolativa o rumorosa e quindi essa stessa inquinante – e la comunicazione fallace, quella difensiva che pretende per esempio che un elenco parziale di cose fatte suggerisca completezza. Nella comunicazione autentica, infatti, non basta il logos – i fatti, le azioni compiute, le argomentazioni stringenti – ma sono necessari anche il pathos e l’ethos e cioè il saper mettere in gioco le proprie emozioni e il volersi esporre personalmente con punti di vista e azioni personali. Un’azienda autenticamente “sostenibile” è pertanto costituita da leader che “dicono” la verità non con le parole ma con le loro azioni, quelle figure solari che nell’antica Grecia erano chiamate parresiastes e godevano del diritto non solo di parola ma anche di ascolto.
È allora necessario progettare in modo sistematico attività educative sui pivot del cambiamento aziendale, su quelle figure cioè capaci – per ruolo, autorevolezza o competenza – di guidare e attuare i cambiamenti dell’azienda e innescare processi imitativi. Innanzitutto, il top management, le figure carismatiche e le risorse ad alto potenziale. Solo in questo modo le aziende potranno iniziare a ripensare alla loro stessa missione e (ri)formulare il piano strategico, in modo che sia anche strutturalmente e nativamente sostenibile. Bisogna incidere, dunque, non solo sulle capacità ma anche sulle mentalità e la cosa è notoriamente difficile. Per questi motivi è nato a Torino il Cottino Social Impact Campus, il primo campus in Europa interamente dedicato alla cultura dell’impatto sociale e dell’impact investing.
La sensibilità a questo nuovo approccio strategico-operativo (e non solo comunicativo) della sostenibilità si sta fortunatamente diffondendo. Una recente ricerca di Mercer mostra che l’incidenza delle aziende che presentano almeno un indicatore ESG (Environmental, Social, Governance) all’interno dei sistemi incentivanti di lungo termine è salita al 42% rispetto al 17% dell’anno precedente. Il commento del CEO di Mercer, Marco Valerio Morelli, evidenzia chiaramente il fenomeno: «Le parole chiave da aggiungere nel vocabolario dell’Executive Compensation sono sostenibilità, coerenza e trasparenza. Sostenibilità intesa come il crescente impegno delle società nella definizione di politiche che mettono al centro delle strategie aziendali l’ambiente, il territorio e le comunità».
Dal corretto al giusto
La terza riflessione è infine relativa all’ambito di intervento, ovvero dove deve essere applicato il concetto di sostenibilità. Come noto oggi non è più sufficiente sviluppare prodotti e servizi utili e desiderabili per i clienti e remunerare il capitale investito di azionisti e debt holder. È necessario anche creare un impatto positivo all’interno del proprio sistema di riferimento ed essere un’azienda per la quale ci si sente orgogliosi di lavorare.
Da un’abilità decisionale a tre dimensioni – poiché di un’azione valuta la fattibilità, l’utilità per il mercato e la remunerazione del capitale investito – la sostenibilità richiede di sviluppare una vera e propria capacità di discernimento in grado di prendere decisioni che abbraccino più aspetti. Non solo le tre dimensioni indicate prima ma anche l’equilibrio sociale, la qualità ambientale, il grado di irrobustimento di clienti e fornitori, il benessere psicologico dei dipendenti. Si tratta di decisioni, dunque, permeate di valori etici e quindi non solo “corrette” ma anche “giuste”.
Creare le condizioni per generare quel (desiderabile) impatto positivo che l’azienda deve poter ottenere nel proprio ecosistema di riferimento (non solo esterno ma anche interno all’azienda) diventa sempre più necessario. E questo impatto si declina proprio lungo le tre direttrici ESG: Environment, Social e Governance. Questo significa in concreto impatto ambientale, impatto sociale e trasparenza/integrità nella conduzione della stessa azienda, che deve diventare, o meglio rimanere, “a good place to work” e a cui spetta il presidio della sostenibilità più strettamente economica. Ma queste tre direttrici non colgono tutti gli ambiti in cui può verificarsi un impatto devastante e quindi da presidiare. Sta infatti emergendo una quarta direttrice di intervento: l’universo digitale. Per molti – soprattutto per i fornitori di queste tecnologie – il digitale viene considerato una delle possibili leve per vincere le sfide sociali e ambientali e di governance delle aziende, anzi addirittura “la soluzione”. Ma a ben vedere il digitale è innanzitutto molto di più di una tecnologia e un settore economico. Si tratta di un vero e proprio ambiente – anzi universo – con le proprie leggi, i propri principi di funzionamento e che avvolge sempre di più e con maglie sempre più strette l’intera umanità. Umanità che non si limita a usare il digitale ma ci interagisce, lo abita e talvolta lo subisce.
Inoltre, la sua dimensione problematica – il lato oscuro – è strutturale, quasi complementare al lato brillante dell’innovazione.Possiamo dire che le due polarità si definiscono e si alimentano a vicenda. Quanto più una tecnologia è potente e crea opportunità tanto più sviluppa dimensioni potenzialmente problematiche, in quanto legate a errori di utilizzo, a comportamenti imprevisti o all’uso “non etico” fatto da coloro che The Economist – in un efficace articolo sul tema – ha chiamato “wrongdoers” e che noi diremmo malintenzionati. Klaus Schwab, fondatore del World Economic Forum, ha riassunto questa duplicità del digitale in modo bruciante e illuminante: «La tecnologia è allo stesso tempo l’agente disgregatore e la forza motrice del progresso».
Decisori e utenti possono essere inconsapevoli dei danni generabili dal digitale. Mentre sul fronte dell’impatto ambientale e sociale è possibile identificare e bandire le azioni dannose, nel caso del digitale la situazione è molto più complessa, soprattutto dopo l’avvento dell’intelligenza artificiale. Senza una conoscenza approfondita di queste tecnologie è infatti sempre più probabile prendere, in piena buona fede, decisioni i cui esiti si possono rivelare successivamente nefasti. Infatti – come ci ricorda il filosofo Paul Goodman – «dipenda o no dalla nuova ricerca scientifica, la tecnologia è un ramo della filosofia morale, non della scienza» perché attiene agli impatti, più o meno consapevoli, delle sue azioni.
È necessario quindi incominciare a parlare di modello ESDG – Environment, Social, Digital and Governance. E mai come per il digitale la raccomandazione del filosofo Hans Jonas alla base del suo principio legislativo di precauzione – sancito nella Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente e Sviluppo di Rio de Janeiro nel 1992 – – è particolarmente azzeccata: «non si deve mai fare dell’esistenza o dell’essenza dell’uomo globalmente inteso una posta in gioco nelle scommesse dell’agire».