Le transizioni che il mondo delle imprese, e più in generale delle organizzazioni, si trovano a dover affrontare, accentuate dalla pandemia, hanno sicuramente cambiato il campo organizzativo della formazione manageriale. In primo luogo, in termini di dominio delle competenze.
La pervasività della trasformazione 4.0 ha reso necessario, seppur a livelli e con gradualità diverse, “emancipare” ogni attore del contesto organizzato nei processi di creazione di valore rompendo ogni sequenza logica di flusso e qualsiasi criteri di segmentazione all’interno dell’azienda, sia gerarchico sia funzionale.
Il bisogno è esteso con consapevolezza rinnovata da parte dei vertici aziendali. L’intensità di questo processo è molto forte, tanto da poter affermare che la formazione manageriale sia avviata verso un processo di “commoditizzazione” spinta. Crescita della domanda, riduzione dei costi e riduzione della segmentazione fra i partecipanti sono le caratteristiche del nuovo campo. Una formazione insomma meno esclusiva, più espansiva, sempre meno legata al ruolo, molto più alla famiglia professionale.
Se ragioniamo in termini di estensione del campo organizzativo, il tema è consolidato. La consapevolezza che “oltre l’aula” accadessero numerosi processi formativi è consolidata da tempo. I metodi formativi si sono ampiamente “settati” in questa direzione, restituendo al “learning by doing” e in generale a tutte le forme di formazione in affiancamento una predilezione metodologica e pratiche che hanno influenzato il processo formativo negli ultimi anni.
In realtà, la riflessione su “oltre l’aula” è molto più complessa, sono numerosi i touchpoint che a diversa intensità, attivano processi formativi, generando quella che viene definito, con una felice metafora, “l’ecosistema della formazione” [1].
La formazione nell’ecosistema è molto articolata, sia in termini di contenuti sia in termini di metodi, dove sono ormai numerosi i riferimenti e le attenzioni da seguire in un contesto così mutato.
L’ecosistema trasferisce l’idea di un network con nodi plurimi e cambia ovviamente la simmetria e la centralità dei nodi. Ad oggi, la formazione, infatti, ha agito soprattutto in forma di broadcast, trasferendo ai sistemi formativi istituzionalizzati il compito di erogare una formazione formale, rimandando al mondo delle professioni e della consulenza strategica e professionale la responsabilità di completare l’offerta formativa nella dimensione “non formale”. Questa situazione, ampiamente codificata, si pone in un continuum fra accademia e practitioner, da sempre al centro di “visioni diverse” e contrapposte che non facilitano la costruzione dell’ecosistema.
In realtà, tuttavia, la formazione erogata dai “mondi della formazione” è sicuramente la punta di un iceberg che vede “nascosta” un’intensa attività formativa che sempre più è connessa alla trasformazione strategica e alla risoluzione di problemi concreti. Ci riferiamo a una formazione molto legata al business in cui le competenze sono funzionali allo sviluppo. Un posizionamento chiaro, in cui processi e pressioni competitive diventano il motore e l’oggetto di iniziative formative informali e diffuse, che hanno come loro unità di analisi, progetti di cambiamento organizzativo all’interno dell’azienda.
L’emersione e la legittimazione di questi processi di apprendimento sono alla base del vantaggio competitivo delle aziende. La riflessione sul growth mindset in questo senso è particolarmente efficace. Le aziende che intraprendono e sostengono percorsi di crescita più sostenuti hanno attivato processi e setting organizzativi volti a generare all’interno dell’azienda un ambiente favorevole al growth mindset, rispetto alle aziende che “presidiano” lo status quo, a cui viene attribuito una tensione al fixed mindset[2].
Ecosistema della formazione e growth mindset spiegano in altre parole il bisogno di formazione diffuso e un’osservazione attenta allo sviluppo dei touchpoint e alla loro efficacia nella generazione di un contesto di apprendimento generativo.
In una recente ricerca appena presentata con Fondirigenti e AIDP[3], emerge abbastanza evidente il ruolo del “manager formatore”, attento soprattutto a generare un contesto di apprendimento favorevole per il proprio team. Queste competenze risultano abbastanza centrali nel processo e spostano il presidio e l’onere dello sviluppo dalla funzione HR che tradizionalmente ha governato i processi formativi alle singole unità organizzative e al loro manager di riferimento. L’idea del manager formatore implica il dominio di competenze di contenuto, ma soprattutto di metodo, proponendo e indirizzando i collaboratori a processi continui e immersivi di formazione.
In questa prospettiva, ad esempio, si spiega la strategia di APAFORM, di allargare in maniera considerevole il proprio ecosistema formativo da rappresentare. L’evoluzione delle figure professionali “qualificate” è stata estesa ai ruoli amministrativi, nei cui processi sono presenti metodo e contenuti di apprendimento e ai valutatori, anello centrale di un processo di istituzionalizzazione dell’ecosistema, costruito sulla riconoscibilità e trasferibilità delle competenze formative.
Ma la riflessione riguarda anche l’idea di un formatore che agisce nel contesto rinnovato. La figura professionale del formatore evolve in maniera sensibile e facilita l’opportunità di formare nuove figure professionali, su cui costruire una rappresentazione del ruolo, cruciale e appassionante, così come lo è nel suo potenziale. Su questa trasformazione verte la riflessione del gruppo giovani di APAFORM, per informare, attrarre e formare al ruolo “rinnovato”, figure professionali che possano trovare nel campo della formazione manageriale, un ambito lavorativo coerente con le proprie aspirazioni di vita professionale e personale, all’interno della filiera formativa della formazione.
[1] Nacamulli R., Lazazzara A., L’ecosistema della formazione, EGEA 2023
[2] Si fa riferimento, a questo proposito, alla riflessione proposta da Carol Dweck, professoressa di psicologia all’università di Stanford, che nel suo libro Mindset: The New Psychology of Success (2006), definì il growth mindset come “la mentalità tipica di una persona che sa di poter coltivare le sue qualità di base attraverso un mix di impegno, strategia e aiuto da parte degli altri”. Dweck sviluppò il concetto in contrapposizione alla “fixed mindset” (tr. “mentalità fissa”), propria di quelle persone che tenderebbero a concepire il talento come innato, come qualità che si possiede” geneticamente”. Il tema risulta centrale nei processi di transizione, collegando il growth mindset a unamentalità votata alla crescita, aperta al cambiamento e all’apprendimento continuo, necessari per affrontare la complessità contemporanea.
[3] Amicucci F., Nacamulli R., Serio L., Il manager formatore, atti di ricerca, Marzo 2023