Cosa vuol dire essere giovani? Ormai sono passati diversi giorni da quando ho iniziato a pensarci. Mi squilla il telefono e dall’altra parte c’è una delle persone che stimo di più a livello umano e professionale. Si chiama Andrea Crocioni, giornalista che scrive per questo magazine che spesso ricambia a suo modo: facendomi domande difficili, quasi impossibili a cui rispondere.
Dopo essermi scervellato ho deciso che il modo migliore per raccontare qualcosa di utile e sensato sarebbe stato raccontarvi la mia esperienza da giovane. In fondo fino a pochi anni fa ero giovanissimo, oggi ho 24 anni e tra viaggi, studi, incontri mi sento finalmente di aver lasciato alle spalle l’adolescenza e di aver perso per strada un bel carico di inutile confusione e paura che a volte frena nel fare le cose.
Mi hanno insegnato che in tutte le storie c’è un turning point, di solito preceduto da una serie di eventi che caricano di ansia il lettore. Visto il periodo storico non penso ci sia bisogno di aggiungere altra tensione, quindi partirò subito con un evento che ha cambiato il corso della mia adolescenza e mi ha aperto gli occhi: la mia prima esperienza all’estero.
Avevo finito la scuola da pochissimi giorni, avevo 17 anni e quell’estate sarebbe stata la più bella della mia vita. Quella della Maturità. Mare, feste, amici. Ma non fu proprio così, di fatti decisi di partire per l’Inghilterra. Avevo trovato un lavoro in un hotel come “asciuga forchette” e con tanta voglia di imparare l’inglese partii senza pensarci due volte. Ecco, quello è stato il mio turning point: un anno lontano da casa, senza amici, senza feste, senza mare. Ripensando a tutte le difficoltà vissute nei primi mesi causa lingua e ambiente sconosciuto, mi diventano più chiari i motivi per cui un’esperienza all’estero sia fondamentale per tutti i giovanissimi che vogliono essere giovani. Li riassumo in due: perdere i punti di riferimento e restare da soli.
Sono estremamente convinto che un giovane tiri fuori il meglio di sé quando è obbligato a farlo. Voglio dire, Io non ho fatto nulla di difficile, pensiamo a quei giovani che attraversano continenti e rischiano la vita per cercarne una migliore, eppure riescono a farcela, a costruirsi il futuro che vogliono ed essere felici. Come potremmo competere noi con loro senza aver mai provato a uscire dalla nostra zona di comfort, anche solo per qualche mese. Anche solo per pura curiosità di capire i propri limiti. Perdere i punti di riferimento ci permette di costruirne di nuovi ogni giorno, di selezionare obbligatoriamente le persone che ci danno valore da quelle che invece ci danneggiano ma che per comodità familiare o prossimità territoriale (penso al paesino da cui provengo) ci teniamo strette. Perdere i punti di riferimento ci permette di non perdere più tempo, di rifocalizzarci solo sulle cose importanti.
Il secondo fattore determinante è restare da soli. Sì, senza nessuno che sia disposto ad aiutarti perché ti conosce, perché conosce i tuoi genitori, perché “ma su dai, son ragazzi”. Stare soli significa iniziare a dimostrare il tuo valore per ottenere in cambio delle relazioni di valore. In definitiva, stare da soli permette di conoscere meglio sé stessi perché si inizia a cercare di stare bene con sé stessi: il deterrente più forte di tutti nel fare esperienze da soli è proprio la paura di restare senza nessuno. I giovanissimi stanno in branco, fanno di tutto pur di non sentirsi esclusi, tradiscono la propria etica pur di non sentirsi un passo indietro, quando stare da soli è ciò che aiuta una persona a guardarsi dentro e a capire, davvero, cosa vuol dire essere giovani.