Rivoluzione digitale e dintorni

La “Rete” come nuovo paradigma organizzativo?

Disruptive work @digital

L’ufficio è un luogo adatto per l’attività di ogni giorno, ma non il posto migliore per pensare in grande.
(W.E. Uzzell)

La rivoluzione digitale e la nascita di Internet non solo hanno creato straordinari prodotti e servizi, ma hanno anche fatto nascere aziende – di grandissimo successo – con modelli organizzativi, processi e competenze molto diverse da quelle comunemente adottate. Molte aziende tradizionali, nei loro percorsi di digital transformation, si stanno chiedendo quanto si debbano imitare questi modelli.

Quattro in particolare, fra i tanti modelli “nati in Rete” e “organizzati a mo’ di rete”, sembrano essere interessanti e in grado di suggerire approcci organizzativi capaci di cogliere con maggiore efficacia le opportunità offerte dal rapido diffondersi del digitale: team e aziende virtuali, co-working, crowdsourcing e leaderless company.

I team e le aziende virtuali sfruttano appieno le possibilità di lavoro nomadico e remoto del digitale, reso ancora più necessario dalla pandemia. I due principali benefici a cui tendono sono la maggiore vicinanza con i clienti e l’eliminazione dei tempi morti (e delle scomodità) per raggiungere gli uffici. Le strutture commerciali da tempo adottano varie forme di team virtuali, ma la spinta verso una vera e propria azienda virtuale senza sede fisica è recente e abbina le nuove potenzialità offerte dallo smart work e dalle soluzioni cloud alla crescente richiesta di distanziamento sociale.

Il co-working considera gli uffici ancora centrali nei processi di lavoro – perché sviluppano relazioni, facilitano il lavoro in team e creano senso di appartenenza – ma ne cambia le logiche allocative. Scompaiono i concetti di ufficio personale e il paradigma dell’ufficio “senza carta” diventa uno degli obiettivi e spesso è la misura stessa del successo dell’iniziativa. Il luogo di lavoro viene riletto completamente come occasione di lavoro condiviso: le postazioni di lavoro personali non sono più fisse e aumentano i luoghi collettivi, sia di lavoro, come le sale riunioni, sia di relax. Il ripensamento degli spazi di lavoro a valle del Covid sta creando anche nuove formule di condivisione. La più interessante è certamente l’Hub-quarter lanciato da eFM, un’evoluzione del concetto di headquarter per abilitare co-working fra più aziende.

Il crowdsourcing indica lo sviluppo collettivo di un progetto da parte di un gruppo (potenzialmente numeroso) di persone esterne all’azienda. Agli inizi il contributo era solo volontaristico, mentre oggi ci sono piattaforme che organizzano contest su specifici temi con premi in denaro per i vincitori (che sono a tutti gli effetti gli onorari professionali per il lavoro fatto). In molti casi, pensiamo allo sviluppo dell’Open Source o alla creazione di loghi, spot o vere e proprie campagne pubblicitarie: il beneficio non è solo la riduzione dei costi o la velocità esecutiva, ma il fatto che il progetto viene conosciuto da più persone e coloro che vi partecipano ne diventano in qualche modo co-autori e sponsor. Vi sono poi forme estreme – ad esempio i cosiddetti hackathon – dove la gara si basa su un compito molto specifico e il tutto si deve completare in un massimo di due giorni (notti comprese). Realtà come InnoCentive (le cui sfide su temi di frontiera del R&D sono seguite da centinaia di migliaia di scienziati e ricercatori, professionisti, ma anche da dilettanti) hanno portato il tema del crowdsourcing dentro i processi core delle imprese.

La leaderless company è la forma più estrema di digital transformation. Uno degli articoli più celebri sul tema è “First, Let’s Fire All the Managers” scritto da Gary Hamel per Harvard Business Review nel dicembre 2011 dove spiegava «how to create an organization that combines managerial discipline and market-centric flexibility – without bosses, titles, or promotions». Questa tesi, piena di stimoli interessanti ma fatta più per stupire che non per aiutare, sta già producendo i suoi effetti, non sempre positivi. Un recente dossier pubblicato dall’Internazionale dedicato alle nuove pratiche di lavoro rese possibili dal digitale titolava: “Il mio capo è un algoritmo”. Il capo non è solo colui che dà i compiti e verifica che vengano svolti: indirizza (quando il percorso non è chiaro), contribuisce fattivamente ai brainstorming, stimola, motiva, giudica e valuta, allenta la tensione e dirime i conflitti, si fa carico delle criticità e protegge il team quando serve, si espone verso i capi dei capi… Uno dei casi più interessanti di azienda “senza capi” è certamente la cosiddetta Holacracy. Lanciato nel 2009 dal programmatore software Brian Robertson, questo vero e proprio movimento vuole sostituire la tradizionale gerarchia manageriale con meccanismi operativi peer-to-peer in grado di migliorare la trasparenza, l’accountability e l’agilità organizzativa. L’idea di base è di “distribuire” l’autorità all’interno dei team di progetto per consentire a ciascuno (che se lo meriti..) di assumere (temporaneamente, ogniqualvolta serva) ruoli di leadership e di prendere decisioni motivate e supportate. La metafora che guida l’Holacracy sono i sistemi biologici che si auto-organizzano. Uno dei casi più noti di applicazione di questo metodo è l’azienda Zappos, famoso sito di e-commerce di scarpe e abbigliamento.

Da queste realtà emergono certamente alcuni aspetti interessanti e potenzialmente molto utili nel migliorare le performance anche delle aziende “tradizionali”. In particolare:

  • Agilità organizzativa che riduce le overhead e gli appesantimenti burocratici riducendo i tempi di risposta e le capacità adattative.
  • Riduzione (ma non eliminazione) della pressione gerarchica: la gerarchia può essere dannosa nei processi di crescita disruptive ma può essere molto utile (e necessaria) nei momenti difficili e di crisi, dove bisogna prendere decisioni complesse e responsabili e anche proteggere risorse non immediatamente utilizzabili.
  • Facile accesso per tutti a una straordinaria ricchezza di informazioni, idee, esempi vincenti, a patto che si sappiano sia valutare che utilizzare correttamente.

Che fare allora? Dobbiamo cogliere sì le analogie fra la dimensione virtuale e la realtà fisica, ma farlo con intelligenza; attingere alle similitudini che funzionano sulla Rete ma nel rispetto della diversità e delle specificità (di contesto, legate alle consuetudini e storia dell’azienda) che la “traduzione” deve tenere in massima considerazione.

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