L’imprenditorialità è una competenza complessa, articolata e scomponibile in tre personas: il capitano d’impresa, il manager e il leader.
Il capitano di impresa deve innanzitutto avere una conoscenza approfondita del contesto e del settore in cui opera. Deve, inoltre, avere uno sguardo al futuro, per poter capire le dinamiche che modificano il contesto in cui opera, identificando e connettendo i segnali deboli con cui il futuro anticipa sempre le sue manifestazioni. Deve anche saper tradurre idee capaci di cogliere opportunità o risolvere criticità in intrapresa, in progettualità, in azioni e piani. Questa capacità – tipica delle start up di successo – richiede il saper simulare diversi scenari, anche fra di loro antitetici, per identificare l’opzione migliore analizzandone gli impatti. Oltretutto, i crescenti vincoli legati alle varie dimensioni della sostenibilità aumentano la complessità nella valutazione delle conseguenze delle azioni intraprese: non è più sufficiente, infatti, analizzare l’impatto economico nel lanciare nuovi prodotti e servizi: la loro utilità, fattibilità e profittabilità. Oggi vanno compresi anche gli impatti ambientali, quelli sociali – sia a livello di capitale sociale sia psicologico – e le modalità con cui si raggiungono i risultati: le questioni, cioè, legate alla governance e all’etica d’impresa. Serve allora anche un robusto pensiero critico, quello che Jack Welch – per vent’anni alla guida di General Electric – chiamava sano scetticismo, per verificare con attendibilità se le opzioni ipotizzate nel piano di business sono sempre quelle giuste. Troppo spesso, infatti, nei piani di business tendiamo a essere ottimisti sui risultati ottenibili e superficiali sui costi e rischi connessi. I bias cognitivi sono sempre in agguato.
Il leader, invece, è colui che guida le persone di un’azienda verso obiettivi sfidanti e spesso difficili anche da rappresentare. La sua abilità principale è il saper comunicare in maniera persuasiva convincendo che la sfida va affrontata e che soprattutto può essere vinta. Questa capacità comunicativa non è solo legata a tecniche retoriche, ma anche alla qualità umana della persona che in qualche modo si mette in gioco. In uno splendido libro, Michel Foucault definisce questa figura parresiastes, parola greca che indica colui che dice la verità. Dire la verità rende la persona non solo integra, ma anche credibile; e ciò non è legato solo alla qualità comunicativa ma anche alla coerenza tra ciò che viene detto e ciò che viene effettivamente fatto o, come dicevano gli antichi greci, tra logos e bios. Solo le persone credibili, capaci di mettersi in gioco, di mettersi davanti agli altri senza protezione e che sono disposte ad affrontare le conseguenze di ciò in cui credono – anche dei possibili insuccessi – sono i leader autentici, capaci di guidare le aziende verso obiettivi sfidanti, tenendo la barra dritta anche in mari tempestosi.
E infine il manager, l’abile gestore delle preziose risorse che l’azienda mette a disposizione per l’intrapresa. E queste risorse sono di due tipi: persone e progetti. Pertanto, un manager efficace deve possedere due competenze specifiche: intelligenza emotiva e project management.
Con la prima competenza è in grado di motivare, coinvolgere e valutare le risorse umane; con la seconda sa come organizzare al meglio le risorse attribuite al progetto – in primis quelle umane, ma anche quelle finanziarie e tecnologiche – per costruire un progetto fattibile e capace di portare i risultati attesi nei tempi previsti e coi costi assegnati.
Ma, oltre a ciò, vi è un’ulteriore competenza che la contemporaneità ha reso sempre più necessaria: la digilità, intesa come l’abilità e agilità digitale. Digitale inteso non solo come tecnologia che automatizza e connette, ma anche come ambiente che produce, collega e valorizza dati e informazioni.
Questa competenza digitale non è semplicemente additiva – una ulteriore competenza da padroneggiare – ma è anche, forse soprattutto, trasformativa. Rilegge e modifica tutte le competenze disponibili: come gestire progetti e persone, come guidare costruendo e condividendo visioni e come “capitanare” l’impresa leggendo i segnali deboli del futuro.
Tanto è vero che nella cultura anglosassone si incomincia a parlare di eEntrepreneurship, dove la “e” davanti alla parola imprenditore vuole sottolineare il fatto che il digitale rilegge e ridefinisce nel suo complesso le competenze e le abilità dell’imprenditore stesso.
Costruire in modo efficace e diffuso l’imprenditorialità – integrata con le altre due dimensioni dell’arte della guida – è quindi una sfida chiave e necessaria per il nostro Paese, vista la numerosità delle imprese presenti e dove, oltretutto, il tessuto produttivo è fatto soprattutto di piccole imprese che, per la loro natura, devono spesso unire queste tre dimensioni in un’unica figura.