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Cambiare mentalità: la sfida della leadership in tempi di crisi

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Cambiare mentalità è una metafora potente che però nel corso del tempo si è progressivamente banalizzata con l’uso (o meglio con l’ab-uso) diventando parte integrante nel linguaggio di tutti i giorni. Ha subito, cioè, quel meccanismo che i linguisti chiamano catacresi, quando la metafora perde il suo potere evocativo, la sua forza fulminea e diventa parola ordinaria: esempi di questo meccanismo sono “le gambe” della sedia o i fianchi della montagna.

E ciò comporta anche che questa espressione venga intesa come qualcosa di normale, di quasi abituale.  “Dobbiamo cambiare mentalità” è quindi uno dei tanti item che mettiamo nella nostra lista di cose da fare. E allora pensiamo che basti un poco di formazione (idealmente il video di qualche mental coach), la lettura dell’ultimo libro del guru di turno o sia semplicemente una questione di volontà. Quando decido, questo cambiamento accade. Niente di tutto, purtroppo, si addice al mindset change. Le altre discipline – quelle non economico-manageriali – affrontano il tema con grande serietà e usano parole potenti, sapienziali per descriverlo: conversione, illuminazione.

Forse anche l’espressione cambiare la mentalità non è del tutto esatta. Un celebre aforisma di Pindaro – spesso collegato dai Greci al “conosci te stesso” dello spartano Chilone – recita “diventa quello che sei!” (avendolo appreso). Più che cambiare facendo cose diverse, si tratta di (ri)trovare la propria dimensione più autentica. Solo da questa dimensione autentica possiamo comprendere e affrontare le novità senza pregiudizi.

In ogni caso, questo processo è molto complesso e trova moltissime resistenze. L’essere umano teme in generale il cambiamento perché entra in una zona sconosciuta abbandonando comportamenti conosciuti e padroneggiati. Guardare le cose in modo diverso vuol dire anche disimparare – e quindi perdere – lo sguardo precedente.

Il cambiamento di mentalità è dunque una sorta di torsione del nostro io che deve cogliere nuove prospettive: deve cioè diventare capace di vedere le cose – anche quelle che abbiamo davanti ai nostri occhi – in un modo diverso e deve dimenticarsi, come dicevamo, anche di alcune delle cose che abbiamo appreso che condizionano il nostro sguardo. In un celebre carteggio Albert Einstein scrive all’amico e collega Heisenberg: «È la teoria che determina ciò che noi possiamo osservare». Per un ortodosso ciò che è fuori dalla teoria o dall’ideologia non viene neanche notato: non esiste.

Se poi questo cambiamento deve avvenire in un periodo di crisi, la cosa si fa ancora più complessa. Ma cosa significa esattamente crisi? È celebre la riflessione fatta dal Presidente John F. Kennedy nel suo discorso di Indianapolis agli afroamericani il 12 aprile 1959: «Scritta in cinese, è composta da due segni (wei-ji). Uno rappresenta il pericolo, l’altro l’opportunità». Come dire le crisi fanno paura ma contengono sempre – per chi sa “ben vedere” – anche gli elementi per trovarne una soluzione. Questa frase fu usata spesso da Kennedy e poi adottata da Nixon e da molti consulenti motivazionali. Secondo alcuni filologi del cinese, però, mentre wei indica certamente pericolo, paura, … ji è polisemico e, da solo, non significa necessariamente opportunità (il suo composto juhui significa opportunità, ma non la semplice radice ji). Per capirne allora il vero significato di crisi conviene ritornare alla radice greca della parola. In greco antico, krisis significa trasformazione, anzi scelta, decisione, fase decisiva di una malattia (viene dal verbo krino = distinguere, giudicare): non è dunque un evento (catastrofico) ma il punto critico di un processo di cambiamento (spesso di rigenerazione) che indica la necessità (e quindi il saper) separare, distinguere, prendere una decisione (e quindi avere discernimento) perché da lì in poi si può orientare il cambiamento (anche facendo in modo che prenda un decorso positivo). La crisi di una malattia è quando ne vengono svelate le cause ed è possibile fare una diagnosi. Solo nella crisi (o poco dopo ma mai prima) si può ipotizzare la prognosi, e cioè interventi efficaci per orientarne in senso positivo il decorso.

Quindi la crisi non vuol dire paralisi da assenza di informazioni bensì il momento in cui bisogna agire con determinazione. Naturalmente non è facile decidere e agire in quanto la crisi crea un vero e proprio shock e violenta le nostre modalità ordinarie di gestione dei problemi. Tre sono i motivi di questa difficoltà.

Innanzitutto, la crisi porta molta ambiguità, intesa come il combinato disposto sia del fatto che noi spesso interpretiamo i fenomeni in maniera ambigua perché ci mancano elementi informativi per comprenderli sia perché la realtà stessa è ambigua (come la fisica quantistica ha più volte dimostrato). In secondo luogo, ci preoccupa la paura di non poter controllare la situazione, di essere in balia degli eventi. Infine, ci turba la mancanza di abitudine nell’affrontare vere novità, di essere innovativi; la vera innovazione non è creare cose nuove quanto piuttosto affrontare cose mai viste, situazioni dove non possiamo utilizzare la conoscenza e l’esperienza pregressa.

Quindi il cambiamento di mentalità apre la questione della nuova conoscenza necessaria per fronteggiare il nuovo contesto. Ma quale conoscenza? Emerge allora la grande questione dei cosiddetti unknown unknowns posta dal segretario alla Difesa USA Donald Rumsfeld durante il celebre briefing del 12 febbraio 2002, sulle cause della Guerra in Irak.

Rispondendo a una domanda di chiarimento sulla mancanza di evidenze che collegavano il governo iracheno con la fornitura di armi di distruzione di massa ai terroristi, Rumsfeld rispose: «I rapporti che dicono che qualcosa non è successo sono sempre interessanti per me, perché come sappiamo, ci sono known knowns, ci sono cioè cose che sappiamo di sapere. Sappiamo anche che ci sono known unknowns; vale a dire cose che non conosciamo ma che sappiamo di dover sapere. Ma ci sono anche unknown unknowns, ciò che non sappiamo di non conoscere.  E se guardiamo attraverso la storia del nostro Paese e di altri Paesi liberi, è quest’ultima categoria che tende ad essere quella difficile».

Il fisico Carlo Rovelli – nel suo L’ordine del tempo – riformula la questione in modo a noi più utile: «Conosciamo ciò che sappiamo e sappiamo confrontarlo con ciò che forse dovremmo sapere… ma non conosciamo ciò che non sappiamo e soprattutto non riusciamo a misurare la distanza con ciò che dovremmo assolutamente sapere».

In ultima istanza, dunque, il cambiamento di mentalità parte da una consapevolezza profonda di chi siamo e di quello che vorremmo/dovremmo diventare e si confronta – per dare piena attuazione al cambiamento – con un nuovo set di competenze e sensibilità da acquisire che non sono sempre a portata di mano. È una grande sfida interiore. Lo dice in modo icastico Lao Tzu: «Colui che conosce gli altri è sapiente: colui che conosce se stesso è illuminato; colui che vince un altro è potente; colui che vince se stesso è superiore».

 

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