È opinione diffusa che stia emergendo il lavoro ibrido, dove la presenza nei luoghi fisici si alterna e si complementa a varie forme di comunicazione digitale. Per mettere a fuoco questo fenomeno è importante utilizzare parole corrette, capaci di descrivere quello che sta davvero capitando. Ma il linguaggio dei mass media spesso semplifica, banalizza e allontana dai significati profondi e talvolta plurimi. Notava il grande scrittore Don De Lillo: “Il mondo è pieno di significati abbandonati”.
Credo allora che la parola ibrido non sia tra le più adatte per descrivere questo fenomeno. Se consultiamo la Treccani, notiamo che l’etimologia deriva dal latino hybrĭda, che significa bastardo. In biologia, infatti, indica un individuo animale o vegetale proveniente da un incrocio di genitori appartenenti a razze o varietà diverse da cui il senso figurato, che denota cose formate da elementi eterogenei che non legano bene tra loro. Anche in architettura indica uno stile senza una propria linea architettonica – nel linguaggio comune diremmo “né carne né pesce” senza una identità propria. Non mi sembra bene augurale per facilitarci la riflessione sul new way of working.
Dietro l’uso della parola ibrido, quindi, vi è un’ipotesi di due mondi che non si parlano, non interagiscono e soprattutto non si armonizzano. Proporrei allora la parola composito: sempre consultando la nostra Treccani, composito (dal latino composĭtus, part. pass. di componĕre che significa comporre) indica eterogeneità, qualcosa risultante dalla fusione di elementi diversi, ma con un tono sulla dimensione generativa; può infatti essere usato come sinonimo di eclettico. In architettura, l’ordine composito, di creazione romana, nasce dalla modificazione del corinzio, con il capitello che alle volute ioniche unisce l’acanto del corinzio e inserisce spesso anche elementi figurati. Lo stile composito venne molto usato nel Rinascimento e nel Barocco. Interessante il significato che ha nella tecnologia dei materiali: un materiale composito e quello che viene ottenuto dal raccoppiamento di materiali diversi così da sfruttare le proprietà positive di ciascuno di essi, come il cemento armato (ferro e calcestruzzo), i pneumatici (gomma, fibre, fili d’acciaio, ecc.), i materiali ceramici (una fase cristallina e una vetrosa). Più della somma delle parti, dunque; olistico direbbero alcuni.
Il contributo delle nuove modalità di lavoro grazie al digitale è pertanto la creazione di comportamenti compositi che non siano la semplice fotocopia digitale – peraltro sbiadita – di comportamenti tradizionali, anche perché molti di quei comportamenti che vorremmo digitalizzare erano già patologici prima e devono quindi essere ripensati – spesso in modo radicale. Troppo spesso, infatti, ci limitiamo a utilizzare il digitale per automatizzare comportamenti non ottimali (se non addirittura errati) – ciò che eravamo abituati a fare – e otteniamo allora comportamenti addirittura peggiori. Come noto, la grande sfida del digitale non è tanto l’automazione quanto la trasformazione, il ripensare al modo di lavorare; ripensare partendo non solo dalle potenzialità offerte dalla tecnologia ma anche dalle criticità e spazi di miglioramento dei processi che vogliamo digitalizzare.
A ben vedere il digitale agisce come una sorta di enzima in grado di mettere in luce i cattivi funzionamenti e di accelerare l’esplicitazione di fragilità e incapacità; lo abbiamo visto durante il lock down, dove molti manager gestivano in modo inefficace le riunioni da remoto non perché non sapessero usare le piattaforme digitali ma perché non sapevano gestire le riunioni. Nel caso reale la cosa era tollerata: le riunioni erano meno frequenti, erano comunque un’occasione di incontro sociale ed emergevano – spesso in modo non pianificato – correttivi. Nel caso digitale, invece, il fatto diventava manifesto a tutti e progressivamente sempre più fastidioso e intollerabile.
Ci servono allora nuovi termini per cogliere e descrivere fenomeni così nuovi. Due in particolare sono le espressioni che possono essere utili per mettere a fuoco con maggiore profondità e precisione le dinamiche legate al digitale.
La prima è il concetto di digilità, l’autentica competenza digitale; è tra l’altro curioso che per una competenza così importante l’italiano richieda un giro di parole. E poi l’essere anfibio: la caratteristica principale che caratterizza i manager e i professional capaci di cogliere appieno la rivoluzione digitale delle pratiche di lavoro pur sentendosi a proprio agio anche negli ambienti tradizionali.
Digilità è un neologismo che abbiamo inventato – Ornella Chinotti ed io – per il titolo di una ricerca sul futuro del mondo HR pubblicato per i tipi di Harvard Business Review (I tre nodi dell’HR: digilità, umanità, spazialità). La parola è nata dalla fusione di digitale e abilità ma anche agilità. Espressione che vuole porre l’accento sulle competenze che il digitale richiede, su ciò che dobbiamo possedere per muoverci al meglio negli ecosistemi digitali, che non solo deve richiedere specifiche capacità (abilità) ma deve tradursi anche in comportamenti efficaci (agilità).
Anfibio viene dal greco amphíbios è indica il poter vivere una doppia vita, il poter abitare in ambienti molto differenti fra di loro (ad esempio come quelli aerobici o acquatici … e ovviamente quelli fisici e quelli digitali). La parola, a sua volta, è composta di amphi che vuol dire di due parti, doppio e bíos che indica la vita. Nell’uso comune sono anfibi, ad esempio, quei veicoli capaci di muoversi sia sul terreno che in acqua oppure sia di navigare sull’acqua che di volare – come l’idrovolante o la barca a vela di Prada. Il termine ci ricorda che il passare da un ambiente all’altro richiede specifiche proprietà – addirittura due sistemi respiratori. Il fatto che abbia fiato e allenamento per fare lunghe passeggiate in montagna non implica assolutamente che sia capace anche di sciare. Lo sci è un universo a sè, con indumenti, tecnologie e movimenti specifici.
Ma perché questo ragionamento sull’uso delle parole? Perché le parole contano. Le metafore usate per descrivere nuovi fenomeni – come ci ricorda il linguista Geoge Lakoff – condizionano la loro rappresentazione e la nostra comprensione. Perché nomen omen, dicevano i Latini: il nome condiziona il destino di ciò che nomina.
È allora ritengo sia necessario fare ordine negli strumenti linguistici che utilizziamo per descrivere (e comprendere) la rivoluzione digitale e soprattutto le nuove modalità di lavoro.
In particolare l’autentica competenza digitale – la digilità – è centrale a questo discorso. Come si definisce questa competenza? Non è l’infarinatura di termini né il prodotto di un semplice addestramento: è il risultato di un percorso educativo.
L’alfabetizzazione punta infatti a insegnare l’ABC (i rudimenti) degli strumenti digitali più utilizzati, mentre bisogna costruire comprensione, sensibilità e senso critico nei confronti del fenomeno nel suo complesso.
Non basta conoscere i trend tecnologici e le principali applicazioni digitali di moda, i benefici della specifica applicazione digitale (accettando acriticamente il racconto dei fornitori) o essere addestrati al suo utilizzo. Un’autentica educazione digitale deve fornire ai manager:
- I criteri “obiettivi” di scelta di un’applicazione;
- La conoscenza delle precondizioni di utilizzo e dei potenziali effetti collaterali;
- Gli elementi per costruire Business Case realistici;
- I modi per identificare i lati oscuri e gli aspetti più problematici del digitale;
- Gli impatti organizzativi, psicologici e linguistici a valle della Digital transformation: cosa deve essere cambiato per usare al meglio le nuove soluzioni digitali.
In particolare, è vitale combattere le false credenze, soprattutto quelle relative all’utilizzo, e comprendere in profondità, oltre che le specificità, le dimensioni problematiche del digitale. La comunicazione muscolare del digitale sta uccidendo il senso critico e introducendo comportamenti stereotipati e accettati passivamente e acriticamente. Pensiamo ad esempio all’uso “pavloviano” di una eMail sempre più invadente o l’essere permanentemente in riunione, che diventa sempre di più indistinguibile da un’attività routinaria e quindi inefficace.
L’autentica digilità è composta da quattro dimensioni:
- L’abilità digitale “strumentale” (il “saper fare”)
- L’equilibrio con la tradizione e i sistemi legacy
- La comprensione e prevenzione dei lati oscuri del digitale
- La capacità di comprensione del contesto e del suo eventuale re-design tramite il digitale
Speriamo allora che queste nuove parole diventino performative, facciano cioè accadere le cose – o per lo meno ne generino una corretta comprensione – nel momento in cui vengono pronunciate o evocate. Perché con l’enunciato “Fiat lux” inizia il mondo … e infatti luce fu.