La crisi che stiamo vivendo e le incertezze rispetto al futuro pongono, tra le tante, anche una sfida educativa che va oltre l’annoso e un po’ sterile dibattito fra presenza e assenza, fra aula fisica e DaD. La questione è centrale e complessa: non può essere né semplificata né polarizzata e ci riporta a un tema che periodicamente (proprio in tempo di crisi) riemerge. Parlo della necessità di sviluppare le dimensioni soft o meglio di creare e irrobustire una cultura di tipo umanistico.
Per essere oggi pienamente leader sono infatti sempre più importanti quelle competenze che si basano sulla cultura classica, sulla conoscenza dell’uomo (dalla psicologia alla neuroscienza), sull’agilità interdisciplinare, sul pensiero critico. Competenze indispensabili nei momenti di crisi, vengono da alcuni chiamate superficialmente soft ma sono invece molto hard da sviluppare: intelligenza emotiva, mentalità indiziaria, capacità di astrarre e di riflettere, sensemaking, abilità persuasiva e negoziale.
A ben vedere, non si tratta di nuove competenze, perché i leader di successo hanno sempre fatto appello alle cosiddette arti liberali. Liberali perché, come osserva la filosofa e accademica statunitense Martha Nussbaum, cresciute nell’atmosfera libera della città–Stato greca e il cui scopo era “formare gli uomini a essere buoni cittadini”, a essere uomini e donne libere. Liberali perché, come osserva il retore americano Jay Heinrichs, ci svincolano da pregiudizi e stereotipi consentendoci una “intellectual liberation”.
Ha espresso in modo mirabile questa centralità delle arti liberali nella vita pratica Charles de Gaulle, commentando che cosa Aristotele potesse aver “insegnato” come precettore al condottiero Alessandro il Grande: «La vera scuola del comando è nella cultura generale. Non si diventa un condottiero illustre se non si possiede il gusto e il sentimento del patrimonio dello spirito umano. In fondo alle vittorie di Alessandro si ritrova sempre Aristotele».
In un libro curato per il team di Harvard Business Review Italia (Per una educazione liberale dei manager nell’era digitale) ho raccolto undici saggi pubblicati da Harvard Business Review dal 1957 al 2014, ancora di straordinaria attualità, che mettono in luce non solo l’estrema rilevanza e articolazione delle arti liberali anche nei confronti del pensare e agire aziendale, ma anche il fatto che se ne parla oramai da molto tempo. In Italia sembra invece una novità, una scoperta recente dei teorici del management.
Questa crescita di importanza delle soft skill è anche un segnale che ci dice che la competenza non è tutto. Il carattere, di cui l’intelligenza emotiva è una componente, sta pian piano riemergendo come elemento centrale della leadership. Non basta più la formazione
o l’in-formazione; serve la tras-formazione, il cambiamento del mindset. Come ci ricorda Marcel Proust nella sua Recherche: «L’unico vero viaggio verso la scoperta non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi».
I formatori della classe dirigente del Sei e Settecento – che attingevano dagli Adagia e Florilegia redatti nel Medioevo e Rinascimento e che hanno prodotto la letteratura moralistica, soprattutto in Francia (pensiamo a La Rochefoucauld, La Bruyère, Pascal, La Fontaine, Montaigne…), ridando anche visibilità alle fonti classiche con una particolare predilezione per quelle stoiche (Epitteto, Seneca, Marco Aurelio) – ritenevano indispensabile che il leader (il principe, l’uomo di corte, il prete) avesse un carattere forte e fosse dotato di coraggio, nobiltà d’animo e magnanimità, prudenza, saggezza civile e garbo nelle relazioni.
Non erano aspetti ancillari ma centrali nel percorso educativo. Oggi sembrano parole desuete e raramente il carattere, la prudenza o la nobiltà d’animo vengono analizzati negli skills assessment o nelle valutazioni delle competenze. È come se avessimo dimenticato l’importanza delle virtù. Adriano Olivetti se n’era accorto e infatti, in un suo scritto, sentì il bisogno di caratterizzare l’approccio della sua azienda affermando: «Noi crediamo nel potere illimitato delle forze spirituali: Amore, Verità, Giustizia, Bellezza. Gli uomini, le ideologie, gli Stati che dimenticheranno una sola di queste forze creatrici non potranno indicare a nessuno il cammino della civiltà».
Il supporto di questo percorso formativo richiedeva, inoltre, strumenti specifici; un format educativo che vedeva nell’aforisma il suo attrezzo principale. Con un contenuto super concentrato, pura essenza, e “impacchettato” in modo che fosse memorabile – cioè che non solo colpisse l’attenzione ma ne facilitasse il ricordo – i migliori aforismi riuscivano a unire efficienza ed efficacia comunicativa. Ma vi aggiungevano anche il potere dell’ethos: quell’ipse dixit che lo legava a una figura autorevole e stimata e capace quindi di disinserire la sospettosità e aprire le porte della fiducia. Frasi incandescenti e non riducibili, potenti “cortocircuiti cognitivi”, se enunciate nel momento giusto potevano creare piccole ma potenti illuminazioni.
È istruttivo vedere il loro utilizzo fatto per esempio da Seneca nelle Lettere a Lucilio, da Erasmo negli Adagia o da Montaigne nei Saggi, che arrivava addirittura a piegarle (talvolta con piccole deformazioni o decontestualizzazioni) alle sue finalità narrative.
Come ricorda Erasmo da Rotterdam nell’introduzione ai suoi Adagiorum collectanea – una selezione articolata e in continuo divenire (fece diverse edizioni) di massime, detti, apoftegmi… – il poter disporre di una collezione ben selezionata e organizzata di aforismi ci offre, a portata di mano (o di click…), “i venerandi segreti della filosofia […] e il comportamento di una persona o di un popolo”.
E la brevità – unita alla musicalità e integrata da un uso sofisticato di “giochi di parole” per potenziarne e piacevolezza e memorabilità – ne è proprio il motore. Anche la sapienza indiana – il sanscrito è infatti considerato dagli studiosi la lingua perfetta per le sue minime articolazioni e per l’importanza che quella cultura dava alla lingua e alla parola – ce lo ricorda: «Non disperda il pensiero in vocaboli numerosi: è indebolire la parola» (Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad).
E quindi le parole giuste non sono solo efficaci e «più taglienti di ogni spada a doppio taglio» ma sono anche un potente farmaco – che può diventare droga se mal utilizzato (come ci ricorda Gorgia) – e diventano proiettili – anzi “parole alate” come le definisce Omero con una splendida metafora – capaci di librarsi in volo per raggiungere il cuore e l’anima dell’interlocutore e fiorire in essa.