Rivoluzione digitale e dintorni

Psicopatologia dello (smart) work quotidiano

Disruptive work @digital

Come ci ricorda la grande intuizione di Darwin: l’essere umano si evolve adattandosi a un contesto in perenne mutamento. E il Covid non ha smentito questa potente intuizione: la riduzione della mobilità forzata dalla pandemia, infatti, è stata compensata – perlomeno nei desiderata – da un incremento massiccio delle attività di comunicazione, relazione e lavoro, rese possibile soprattutto dai nuovi sistemi di comunicazione digitale.

Questa diffusione accelerata dell’uso del digitale ha però creato, nei contesti di lavoro, molte dimensioni problematiche: non solo modalità anomale, errate o addirittura inutili di comportamenti aziendali un tempo ordinari che possono, con il tempo e il loro sedimentarsi nella ritualità aziendale, diventare non solo piccole apocalissi quotidiane, ma anche vere e proprie distorsioni percettive sul loro manifestarsi. Ciò implica che chi è coinvolto in questi “atti mancati” tende a darsi delle spiegazioni rassicuranti, ma fuorvianti su ciò che accade davvero e su quali siano i fattori scatenanti di queste défaillances.

Per tali motivi può essere utile una riflessione psicopatologica sullo smart work che si concentri sul funzionamento errato o anomalo di comportamenti ordinari per comprendere come la mente li abbia assimilati e li viva, ad esempio in modo motivante, neutro o addirittura ansiogeno.

Due grandi studiosi, Sigmund Freud (Psicopatologia della vita quotidiana, 1924) e Donald Norman (La caffettiera del masochista. Psicopatologia degli oggetti quotidiani, 1990), hanno riconosciuto, anche se con premesse teoriche molto diverse, che nei piccoli comportamenti quotidiani e nelle loro manifestazioni erronee emergono indicatori di complessi eventi mentali aventi significato generale per una teoria del funzionamento della mente. Pertanto, una comprensione non superficiale di queste psicopatologie ci può dare indicazioni sui criteri di progettazione dei modelli organizzativi sottesi e del tipo di mindset che tendono a favorire.

Come noto, gli attuali ambienti di lavoro erano già fortemente patologizzati (o perlomeno molte pratiche di lavoro erano significativamente underperforming) e l’inserimento del digitale non ha certo migliorato la situazione. Troppo spesso le nuove tecnologie – unite ai vincoli di contesto – hanno creato delle fotocopie digitali dei processi in essere senza mettere in moto nessuna rilettura critica.

L’isolamento richiesto dal Covid e soprattutto la “schermizzazione” forzata – perché questo tipo di smart work è caratterizzato più che dal digitale, che era già molto presente nei luoghi di lavoro, dal “tutto-attraverso-il-video”, dal fatto cioè che la complessità e l’articolazione del mondo esterno si traduce in immagini bidimensionali su un piccolo schermo rettangolare – stanno rischiando dunque di acutizzare le molte criticità già in essere.

Tre sono gli ambiti in cui questi anomalie si stanno manifestando con maggiore intensità: gestire il tempo (personale e dei collaboratori); interagire (comunicare); riunirsi. Non è questo il luogo per affrontare in modo sistematico queste tematiche; può essere però utile riflettere su alcuni casi pratici per rendersi conto quanto lo smart work forzato rischi – se affrontato in modo spontaneistico e poco riflessivo – di peggiorare pratiche di lavoro diffuse che sono già di per sé problematiche.

Prendiamo per esempio il tempo: una sua gestione corretta e consapevole è vitale – determina infatti la qualità della nostra vita (sia come è vissuta che come è percepita) – ma è anche molto complessa; innanzitutto perché il tempo passa via e non torna indietro (tempus fugit) e poi perché ci inganna facilmente. Come osserva lo psicologo Philip Zimbardo in Il paradosso del tempo, «la nostra esperienza personale del tempo è sempre un enigma: se viviamo qualcosa di affascinante, abbiamo l’impressione che il tempo voli; … nel ricordo, il tempo che era volato via, si estende. Quando invece ci capita di aspettare, all’aeroporto o nella sala d’aspetto del dentista, le ore non passano mai; ma alla fine la giornata è come se non ci fosse stata. Il tempo che ci era sembrato interminabile si è ristretto, perché non ha lasciato tracce».

Oppure guardiamo alle riunioni, considerate da molti una vera e propria peste che sta ammorbando i luoghi di lavoro. Partecipare a riunioni inutili, inefficaci, inconcludenti e iperdilatate nel tempo è ormai la regola e non l’eccezione. Ci sono manager che sono perennemente in riunione e, sempre più frequentemente – grazie alla funzione multicall di molti centralini telefonici o alle nuove piattaforme di videocomunicazione – i partecipanti sono sistematicamente in numero maggiore rispetto al necessario.

Lo smart work forzato imposto in questi tempi di pandemia dalla riduzione di mobilità rischia pertanto di accentuare molti comportamenti patologici già diffusi, aumentandone ulteriormente le dimensioni problematiche e gli impatti negativi.

Serve dunque un radicale ripensamento delle pratiche di lavoro – forzato dalla mobilità ridotta e reso possibile dalla rivoluzione digitale – che deve essere però condotto con molta cautela e accuratezza, partendo da un’analisi critica dell’attuale modus operandi (soprattutto la dimensione comunicativa e gestionale) e integrandola con una comprensione non superficiale delle tecnologie digitali e del loro impatto nei contesti umani e organizzativi.

Ritorna al centro la progettazione organizzativa, dunque, che non deve concentrarsi solo sull’efficienza dei processi, ma valutare altre variabili. Donald Norman ci fornisce a questo proposito un importante suggerimento, partendo dalla constatazione che a ciascuno di noi è capitato di spingere una porta invece di tirarla o di rinunciare a lavarsi le mani in un bagno pubblico perché non riusciamo ad azionare il rubinetto. In questi casi la sensazione di incapacità personale è molto forte. Il punto è, sostiene Norman, che la colpa non è dell’utente, bensì di chi ha progettato questi oggetti d’uso comune senza considerare le normali attività mentali, la cui conoscenza è essenziale per la progettazione.

Gli ambienti lavorativi sono oramai lastricati da questi errori, e producono una perversa interazione con gli strumenti digitali di uso quotidiano. Si è infatti pensato che gli strumenti di comunicazione e produttività individuale (posta elettronica, videocomunicazione, messaging, word processor, foglio elettronico, creatore di slide…) fossero così potenti e immediati da non richiedere né una lettura critica né una conseguente progettazione organizzativa. Nulla di più sbagliato.

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