In tempi incerti e già caratterizzati da forti discontinuità con il passato prossimo, il motore che caratterizza il ruolo sociale di un’impresa non è tanto (o meglio non solo) ciò che sta facendo, ma ciò che farà. Questo necessario slancio verso il futuro è il “Progetto” dell’azienda: progetto inteso non in modo banale come insieme di azioni, responsabilità, risorse allocate e milestone, ma – come peraltro ci suggerisce l’etimologia della parola – restituito al suo significato profondo di pro-jectum che, letteralmente, non indica tanto la descrizione di ciò che si pensa di fare, ma l’atto di coraggio verso il futuro, un “gettare oltre“, un voler superare un grande ostacolo.
Questo necessario sguardo al futuro e oltre il quotidiano è motivato da aspetti specifici.
Il primo è che – quando i mercati cambiano – cambiano anche i bisogni e si trasformano anche le possibilità e modalità per soddisfarli. Troppo spesso le aziende si limitano a fare ciò che (oggi) sanno fare, tendendo anche – tipica bias cognitiva messa in luce dalla neuroscienza – a considerarlo la cosa giusta da fare, quella più opportuna. Il motore dell’innovazione ci spinge, invece, fuori dalla zona di comfort, aprendoci alle indicazioni di un sano pensiero critico e segnalandoci nuove opportunità. La sfida è dunque accettare di estender le nostre capacità in terre sconosciute, anche molto lontane, senza però essere velleitari o irrealistici. Solo così – anche in contesti turbolenti e incerti – saremo pro-attivi e non semplicemente reattivi.
Il secondo motivo è che lo scopo di un’azienda, il suo fine ultimo, deve traguardare il futuro, ha il suo perfezionamento nel futuro. Ed è proprio il compimento, lo scopo, che motiva anche le azioni presenti. «Se non si conosce il porto di approdo, nessun vento è favorevole», osservava Seneca nelle sue mentorship al giovane Lucilio.
Per questi motivi, oggi, il purpose è particolarmente importante. Concentrarsi sul purpose non vuol dire però avere la testa nel futuro e dimenticarsi dei problemi concreti. Vuol dire affrontare l’oggi con uno sguardo al domani (e un pensiero non nostalgico al passato). Vuol dire occuparsi del futuro, senza pre-occuparsene. Come ha scritto l’evangelista Matteo in modo molto più autorevole ed efficace: «Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena».
Non è però facile costruire uno scopo che venga compreso e fatto proprio da chi costituisce e fa vivere l’azienda, dai suoi stakeholder. La principale minaccia risiede in un male che si sta diffondendo in modo capillare: una vera e propria miopia nello sguardo verso il futuro. Osserva la filosofa e saggista Donatella di Cesare in un interessante articolo (“Il fallimento del futuro”): «L’alba del terzo millennio è caratterizzata da una difficoltà di immaginare il futuro che non ha precedenti nel passato». Questa miopia viene resa ancora più drammatica da una sorta di pulsione distopica, ben colta da un’altra donna, la giornalista Annachiara Sacchi: «Il pianeta si surriscalda… e dovremmo concentrarci sul futuro che possiamo creare, invece che sulle cattive abitudini da evitare … Non sarebbe stato lo stesso se Luther King avesse urlato: “Ho un incubo”» (“Clima, la nuova lotta di classe”)». È significativo che sia l’intuito e la sensibilità femminile a cogliere con lucidità questa pesante ipoteca sul futuro che ci stiamo autocostruendo.
Solo uno scopo potente e condiviso può farci superare ogni ostacolo, anche il più minaccioso e contrastare quella che Papa Francesco ha definito la sempre più diffusa “carestia della speranza”.
Il grande psicoanalista Viktor Frankl – che ha vissuto personalmente l’esperienza dei lager nazisti – ha studiato i meccanismi che rendono possibile la sopravvivenza anche in condizioni estreme. Analizzando i drammi che avvenivano davanti a suoi occhi si rese conto che nel lager tendeva a sopravvivere non chi era più forte, più in salute, o – come avrebbe detto Darwin – chi era più flessibile e adattivo. Sopravviveva invece chi poteva trovare un significato anche nella follia che stava vivendo. In caso contrario finiva per arrendersi, rinunciando a vivere. Per questo motivo, a esergo del suo celebre libro “Uno psicologo nei lager”, ha scelto una frase potente di Friedrich Nietzsche che riassume in modo illuminante la forza del purpose: «Chi ha un perché nella vita può sopportare quasi ogni come».
Unito a un purpose potente e condiviso, vi è una seconda attitudine necessaria per vivere in tempi incerti e tempestosi: il sapere abitare, attraversare e attingere dalla complessità. Il mondo è intrinsecamente complesso; se ne sono accorti anche i fisici quando hanno enunciato il principio del dualismo onda-particella della materia. L’ambiguità non deriva dunque, come molti ritengono, da una nostra carenza informativa. È invece una proprietà del contesto, è forse il tocco della divinità. Affermava infatti Orazio in una delle sue Odi: «Un Dio prudente nasconde gli eventi del futuro sotto una notte caliginosa e ride se un mortale trepida guardando oltre».
Dobbiamo saper convivere con l’ambiguità e riuscire cogliere le sue ricchezze informative. Uno dei segni della mediocrità di spirito è vedere contraddizioni laddove ci sono soltanto contrasti, che non sono contrapposizioni inconciliabili ma una sorta di tensione feconda tra poli diversi e complementari: nello scontro fra una tesi e un’antitesi può sempre sorgere una nuova sintesi. Come ci suggeriscono i teorici della complessità dobbiamo imparare ad accettare la presenza di concetti inconciliabili passando dalla cultura dell’OR a quella quell’AND. E allora seguiamo il precetto del grande scrittore argentino Jorge Luis Borges: “Se incontri un bivio, imboccalo”.