Rivoluzione digitale e dintorni

I giovani e la sfida del “Digital onboarding”

Disruptive work @digital

I recenti rapporti sull’impatto dello smart work sono tutti concordi nel valutare positivamente il contributo del lavoro da casa alla produttività. Sia quello di Capgemini (“The future of work: From remote to hybrid”) sia quello della School of Management del Politecnico di Milano (Osservatorio Smart Working), seppure con diversi numeri e considerazioni. Ma questi risultati si applicano a tutti i contesti? C’è un ambito, infatti, in cui il fenomeno sembra avere un effetto contrario. È quello relativo ai giovani, soprattutto a quei giovani che iniziano una nuova attività presso l’azienda, spesso la prima della loro esperienza professionale.

A una prima analisi il dato sembra controintuitivo. Pensare che i giovani, proprio i famosi “nativi digitali”, siano il gruppo che peggio si è adattato al contesto lavorativo forzato dal Covid, sembra quasi un errore di misurazione, una sorta di malocchio lanciato dagli “immigrati digitali” per lenire un po’ delle loro frustrazioni. Eppure, è proprio così. I motivi sono sostanzialmente due. Innanzitutto, il fatto che i giovani abbiano una relativa se non inesistente esperienza aziendale; non hanno vissuto le sue luci e le sue ombre. I luoghi di lavoro, soprattutto all’inizio, sono affascinanti, molto diversi dagli ambienti a cui erano abituati, pieni di novità, stimoli e cose da scoprire.

In secondo luogo, è la natura stessa del processo di inserimento nella vita aziendale che mal si adatta a un digitale spinto. L’onboarding, perché sia efficace, richiede infatti un coinvolgimento diretto della persona nella vita aziendale, per osservare comportamenti, parlare e confrontarsi con i colleghi, e soddisfare anche le curiosità più recondite. I due aspetti centrali di questo percorso sono l’osservazione diretta e le domande anche intime. In entrambi i casi le attività da remoto riducono drasticamente le possibilità di osservare e domandare in profondità. Nel caso dell’osservazione la cosa è ovvia, mentre nel caso delle domande è meno evidente. La “riunionite compulsiva” causata dallo smart work ha rarefatto i momenti in cui i capi sono disponibili. Certamente si può domandare al capo o collega tramite e-mail, ma in questo caso la domanda si formalizza e soprattutto rimane come testimonianza. Ed è proprio questo l’aspetto più critico: mentre si può differire l’osservazione dei luoghi di lavoro quando si tornerà in ufficio, certe risposte si devono avere subito perché sono necessarie per organizzare il lavoro al meglio ed entrare con il passo e il tono emotivo giusto nel nuovo ambiente professionale; e lasciare tracce scritte di domande ingenue non piace a nessuno.

Esiste un’ulteriore criticità che tocca un po’ tutti ma incide maggiormente nei giovani: la dilatazione degli orari di lavoro. Il percepito di tutti è che da casa si lavori molto di più, che non si stacchi mai. Poiché l’evidenza di questo periodo di lockdown ci ha detto che non si è prodotto di più ma solo lavorato di più – sono ad esempio esplose le riunioni e si sono infittite tutte le forme di comunicazione digitale – la sensazione è che la produttività reale (output diviso tempo allocato) sia nei fatti peggiorata. E a farne le spese sono soprattutto i giovani, non solo per la loro inesperienza, ma anche per essere gli ultimi anelli della catena, quelli su cui si tende a scaricare inefficienza e a pretendere più impegno e dedizione.

Per contrastare questo fenomeno, allora, serve una maggiore attenzione – non solo professionale ma anche emotiva – dei capi nei confronti dei giovani, soprattutto quelli di fresca nomina. Questa criticità ci ricorda anche, se ancora fosse necessario, che lo smart work, perché sia davvero efficace, non deve essere la semplice fotocopia in remoto di quanto si faceva in ufficio, ma è qualcosa di diverso, sensibile ai differenti luoghi di lavoro, alle specificità emotive indotte dal distanziamento e alle reali capacità di autonomizzazione delle singole persone.

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